Storia di Miriam, la stella d’Africa
«Ma io sono italiana» - Video

Faccia a faccia con la Sylla, giovane campionessa della Foppapedretti: dalla famiglia all’integrazione, fino ai successi sportivi.

Questa è l’intervista più facile del mondo, per un giornalista. Perché Miriam Sylla, astro nascente e crescente della Foppapedretti, prende il centro della scena e non lo molla mai. Arriva in redazione e, tra mille postazioni possibili nella sala riunioni, sceglie quella abitualmente occupata dal direttore. Istinto mica male. E dopo la sedia, prende la parola. Inserirsi per qualche domanda è impossibile, o quasi. Perché Miriam parla, racconta, gesticola, ride. Un fiume in piena col sorriso sotto due occhioni neri. Col sorriso anche quando la storia, la sua storia, incontra curve complicate e lei deve rivestire i panni di una bambina che osserva, pensa, agisce di conseguenza.

Perché, direte voi, tanto spazio per Miriam? È giovane, talentuosa. Domenica contro Busto Arsizio è entrata in campo come una furia, nel finale, mettendo a segno due punti ed esultando come se fossero stati i punti della vita. Ma non ha ancora vinto niente. Semplice: lo spazio è grande perché grande è la sua storia. La storia della sua famiglia, che comincia dal cuore dell’Africa e finisce sul campo di pallavolo del palasport. Una storia che incrocia Bergamo all’inizio e vi approda alla fine. Una storia in cui il nostro Paese viene visto quasi al contrario, rispetto a realtà e luoghi comuni.

Abbiamo chiamato Miriam perché si raccontasse, e quando parte nessuno la ferma più. «Mio papà Abdoulaye tanti anni fa decise di lasciare la Costa d’Avorio per venire in Italia e provare a guadagnare qualche soldo in più. E arrivò a Bergamo perché qui aveva un amico che gli aveva raccontato che in Italia e a Bergamo si stava bene, si lavorava, si guadagnava e aveva una bella casa. Quindi mio papà è partito con suo cognato, cioè mio zio, Souleymane, ma soltanto con un visto turistico. Quindi per poter restare a lungo avrebbero avuto bisogno di una casa e un lavoro, ma dati i racconti era ottimista. Invece una volta arrivati qui hanno scoperto che questo amico aveva raccontato un sacco di bugie. Non aveva niente, dormiva alla Caritas».

Arrivo da incubo: via da Bergamo

Mica facile, come inizio. Partire dalla Costa d’Avorio con tante attese in valigia e ritrovarsi senza niente. «Furono costretti a dormire all’aperto, senza abiti adatti, in un periodo in cui aveva nevicato tantissimo. A mio zio si congelarono mani e piedi, lo portarono all’ospedale dove rischiò che gli venissero amputati. Mio papà - racconta Miriam - mi ha raccontato tante volte che si sentì perso, in città aveva anche assistito a una rissa con bottiglie e coltelli che giravano. Non sapeva cosa fare e temeva che il suo sogno svanisse. Un altro amico, vedendolo così, gli consigliò di lasciare Bergamo per Palermo. Almeno avrebbero trovato più caldo. Così, partirono».

Ciao Bergamo e a mai più risentirsi, avranno pensato Abdoulaye e Souleymane di nuovo in viaggio, ma verso Palermo. In un’Italia in cui tantissimi emigravano da Sud a Nord, loro andavano controcorrente. Fortunatamente, come racconta Miriam. «Anche lì andarono all’oratorio Santa Chiara a chiedere ospitalità, e lui mi racconta spesso che un giorno attraversava la strada e incredibilmente nevicava anche a Palermo. Stava male, e una signora si è sporta da una 500 chiedendogli cosa avesse. Lui a malapena riuscì a spiegare la situazione e a dirle che aveva bisogno di una mano. La signora, praticamente senza conoscerlo, lo prese in casa con sé, per fare le pulizie, l’ha messo in regola con i documenti, e da lì è cominciato tutto».

La fiducia di Maria e Paolo

Tutto comincia dal gesto di generosità di nonna Maria. Dal primo lavoro al secondo, sempre nelle pulizie in un’altra casa. Dal secondo all’arrivo in Italia della moglie, e mamma di Miriam, Salimata, nazionale ivoriana di pallamano. La famiglia mette radici a Palermo, sempre grazie all’aiuto di questi «nonni speciali», Maria e Paolo, che dal nulla hanno dato tetto, lavoro e futuro ad Abdoulaye. «Non sono i miei nonni, ma per me lo sono e appena posso torno a Palermo a trovarli», dice Miriam spalancando il sorriso. «Loro avevano un bar, abitavano in centro, i due figli studiavano e ora fanno i professori. Quando sono nata io la scena era comica: tre persone di colore e tutto il resto bianchi, agitatissimi. I medici non ci capivano niente, ma noi eravamo una famiglia».

Il richiamo del nord

Un fratello della mamma di Miriam, però, nel frattempo arriva a Lecco, e fa il calciatore. Calcio, uguale soldi. Tanti, pochi, ma soldi. Ad Abdoulaye viene l’idea di provarci di nuovo, con il Nord. Impossibile, pensava, dare un futuro alla famiglia continuando a fare «solo» pulizie. Quindi parte per Lecco, sperando negli aiuti del cognato calciatore. «Ma mia nonna non voleva, diceva: “Andate voi, ma Miriam resta qua”». Abdoulaye trova ancora alterne fortune, finché bussa alla porta della «Sala punzoni» di Calolzio e trova un lavoro e una casa piccola in centro a Olginate. «Ero bambina, ma me lo ricordo bene. In quella casa non c’era niente. Ma proprio niente. La sera stavamo con le candele e io piangevo perché volevo la nonna».

Il giorno del giuramento

«Io non me lo ricordo, ma mio papà me l’ha raccontato tante volte. Una mattina mi portò a scuola in motorino scordandosi i miei guanti. Siamo arrivati e io avevo le mani tagliate dal freddo, insanguinate. Lì per lì mi ha giurato che avrebbe fatto di tutto per darmi di più, nella vita». Ma Miriam è una bimba sveglia, e capisce. «Gli altri bambini avevano sempre cose nuove, io ero già alta e mettevo sempre lo stesso grembiulino. Ma non dicevo niente. Finché mia mamma ha conosciuto la signora Anna, che mi faceva da baby sitter quasi gratis per permettere ai miei di lavorare fino a tardi. Anna mi ha insegnato ad andare in bici, Anna mi ha insegnato a leggere e scrivere, Anna mi ha insegnato che non si dicono le bugie. Infatti adesso ne dico un po’ meno...». E scoppia a ridere.

Babbo Natale non ci sente

Insomma la vita prende la sua strada, tra mille fatiche. E Miriam cresce, sveglia come sanno essere solo certe bimbe. «Scrivevo a Babbo Natale e non ricevevo mai quello che chiedevo. Volevo il bambolotto che cammina e mi arrivava quello che non diceva neanche una parola. Ma non gliel’ho fatto mai pesare, perché capivo la nostra situazione. A volte non dicevo ai miei genitori che a scuola servivano certe cose, per non fargliele comprare. Da piccolina avevo la fissazione di guardare i prezzi delle cose, per scegliere quella che costava di meno».

A scuola collezionista di note

A Olginate Miriam frequenta elementari e medie. «All’inizio dell’anno il diario di Winnie the Pooh era grande così, a fine anno ne mancava un pezzo: erano le note che strappavo per non farle vedere a casa. La scuola non mi piaceva, era una tortura, mi dovevo svegliare presto, faceva freddo. Mi piacevano musica ed educazione fisica, un po’ storia. Matematica proprio la odiavo. E facevo disastri, chiamavano sempre i miei ai colloqui».

La pallavolo? Per caso

Sì, ma in questo racconto quando arriva la parola «pallavolo»? Ci sarà stato un giorno, il giorno del desiderio di provarci. Sì, ma anche no. «Perché io non avevo mai pensato di giocare. Solo che un giorno un’amica, Mariam, che già giocava, mi disse: “O vieni all’allenamento con me, o non ti parlo più”». Miriam aveva 12 anni, già alta. «All’inizio al Grenta Volley facevo schifo. Era una tortura, non ci volevo più andare e volevo tornare a fare danza classica che mi piaceva tantissimo ma che avevo dovuto lasciare perché la maestra si era trasferita lontano. Alla fine però mi decisi a insistere, anche perché l’allenatore mi diceva “tu arriverai in A, io ti ci porto”. E io cominciavo a crederci, in serie A volevo proprio arrivarci».

Quattro telefonate per due salti

Di torneo in torneo, questa forza della natura viene notata da un tecnico dell’Olginate, società satellite dell’ex Villa Cortese. Nomi di peso, nel mondo del volley. Chiamano a casa, e Miriam risponde «sono un’amica, Miriam non c’è». «Non ci volevo andare, avevo paura, non volevo lasciare le mie amiche, tutte le mie compagne di classe venivano a giocare perché le avevo convinte e non volevo andare in un posto dove non conoscevo nessuno». Ma richiamano, parlano con la mamma e alla fine il passaggio si fa. «Facevo la gradassa, all’inizio, ma quelle che erano lì erano più brave. Non mi hanno voluto bene subito. Ma poi ho imparato e capito che se volevo provare a fare questo sport quello era il salto da fare, con impegno».

Il salto mentale è decisivo. «Sono diventata una fanatica, seguivo tutti gli allenamenti, giocavo tutte le categorie fino alla serie C. Due, tre allenamenti al giorno. Roba che se me lo dicono adesso, mi sparo. Esisteva solo la pallavolo. In due anni abbiamo fatto bene e sono arrivata alle selezioni provinciali, poi il trofeo delle Regioni e siamo arrivati quarti. Ottimo risultato, ma io ero disperata mentre guardavo quella finale al Palalido. Piangevo e pensavo che nessuno mi avrebbe notata. Sapevo che c’erano degli osservatori».

Invece... Invece a fine partita due signori si avvicinano. «Erano i selezionatori, che parlavano con la mia allenatrice». Tempo due settimane e il telefono squilla di nuovo. «Pronto, c’è Miriam Sylla? Di nuovo ho risposto che Miriam non c’era. Perché speravo nella grande chiamata, ma insieme la temevo. Così richiamano anche questa volta, e parlano con mio papà». Era Giuseppe Bosetti, allenatore dell’Orago e papà di Lucia e Caterina Bosetti, monumento del volley. Era il treno importante. Pian piano Miriam si convince e va a Orago. «Guardavo e vedevo un’altra pallavolo. Un altro mondo». Difficoltà, strada in salita. Ma Miriam non molla e arriva a una selezione regionale. Sul bus, mix di pallavolisti e pallavoliste, un tizio le chiede del suo futuro. «”Vai a Orago? Tu? Tu vai a Orago a raccogliere le borracce”, mi disse. È stata la sfida. Ce l’ho ancora qua, sto ragazzo. Mi sono giurata che gliel’avrei fatta vedere io. Io sono qui, e lui gioca in serie B se gli va bene. Sono andata via di casa, sono andata a Orago, ne ho fatte di tutti i colori ma un giorno è arrivata la chiamata di Bergamo e sono venuta qui a far ammattire Lavarini. Adesso sogno di vincere lo scudetto e un giorno di giocare le Olimpiadi con la maglia dell’Italia».

Sì, l’Italia. Perché a Miriam chiedete tutto, ma non se si senta più ivoriana o italiana. Gli occhioni vi guarderanno storto. «Me lo chiedono sempre, ma è la domanda più insensata che mi si possa fare. Sono nata qui, io sono e mi sento italiana. Magari più siciliana che del Nord».

Questa storia finisce con Miriam che domenica scalpita a bordocampo per due set e mezzo, in attesa del suo momento. Il momento arriva, entra in campo carica a molla, sbaglia la prima ricezione e poi piazza due punti con la voracità di una leonessa. È grande, simpatica, bella e con quel po’ di follia che la rende speciale. Farà anche ammattire Lavarini, ma Bergamo è felice di averla accolta come un talento da trasformare in fuoriclasse. Sarebbe il lieto fine ideale anche per Abdoulaye, arrivato qui tanti anni fa e ripartito con la paura di non farcela. Ce l’ha fatta eccome, monsieur Sylla

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