«Non chiudevo gli occhi
per paura di non riaprirli più»

Una commovente lettera arrivata al giornale di un malato di covid-19.

Sono una delle oltre 200 mila persone che purtroppo hanno contratto il Covid-19. Tutto è iniziato il 3 marzo. Stavo bene ma la sera tornato a casa dal lavoro in piena forma, ho iniziato ad avvertire i primi colpi di tosse e la notte è arrivata la febbre alta: è iniziato così il mio calvario di 13 giorni, a casa.

Il 16 marzo però, le mie condizioni di salute sono peggiorate, tanto che il medico curante recatosi nell’ abitazione ha potuto constatare la necessità di un ricovero in ospedale allertando il 112 e il 118. Alle 23 circa ho lasciato la mia abitazione con destinazione l’ ospedale di Treviglio. Nonostante sia una persona a cui non manca il coraggio ho salutato con il cuore in gola mia moglie e mia figlia trattenendo a stento le lacrime e cercando di non lasciare trasparire la mia preoccupazione. Ho salutato anche una splendida persona venuta in soccorso a casa mia, alla quale ho affidato la mia famiglia prevedendo quello a cui sarei andato incontro. Data la situazione d’ emergenza del periodo, arrivato a mezzanotte all’ ospedale di Treviglio, sono stato preso in carico alle 3,30. Subito dopo sono stato sottoposto a tutti gli esami del caso. La mia situazione però è precipitata nel giro di qualche giorno, tant’ è che mi è stato applicato il cpap (casco).

Le mie condizioni continuavano a peggiorare tanto che si è reso necessario il trasferimento in terapia intensiva. Il dottore che me lo comunicò aggiunse con molto tatto che purtroppo, non essendoci posti reperibili a Treviglio e in Italia, mi avrebbero trasferito con un volo militare a Dresda, in Germania. È stato in quel momento che mi è crollato il mondo addosso, ho avuto solo il tempo di affidarmi alla Madonna del Carmelo, perché poi la preanestesia ha fatto il suo effetto.

Sono stato in coma farmacologico per 5 giorni ed ho rischiato di morire per sopraggiunte complicazioni. Al mio risveglio, vedendo delle luci sopra il mio letto, ho pensato di essere sull’ aereo in volo per la Germania.

Ho scoperto poi che per ragioni burocratiche (in questo caso sia benedetta la burocrazia) il mio trasferimento non è avvenuto e di trovarmi nel reparto di terapia intensiva di Treviglio. Nei primi giorni in rianimazione, dopo il risveglio, ho dormito pochissimo perché avevo il pensiero fisso costantemente rivolto alla mia famiglia e in particolare a mia figlia maggiore che si trovava in Francia. Questo mi dava la forza per reagire e non chiudevo gli occhi per paura di non riaprirli più.

Non dimenticherò mai il momento in cui un angelo di dottoressa mi ha riconsegnato il cellulare «obbligandomi» a chiamare mia moglie vista la mia titubanza dovuta alla paura di spaventarla (chissà cosa girava nella mia mente!). È stata una cosa bellissima ed indimenticabile. Dopo la terapia intensiva sono stato trasferito in altri due reparti Obi2 e Medicina dove sono proseguite le cure. Finalmente dopo l’ esito negativo dei due tamponi sono stato dimesso. Era Venerdì Santo ma per me è stata Pasqua di resurrezione.

Nei giorni passati nell’ ospedale di Treviglio ho potuto avere contezza della drammatica portata di questo virus, e pensando a tutte le persone morte io mi sento fortunato. Anche se ancora convalescente, sono riuscito a vincere questa battaglia contro questo nemico invisibile, ma non l’ ho vinta da solo, avevo una squadra fortissima con me formata da amici e parenti che da nord a sud con le loro preghiere mi sono stati vicini, ma soprattutto ho potuto contare su delle persone splendide quali i medici, e gli infermieri dell’ ospedale di Treviglio.

Quello che mi hanno dato non potrò mai dimenticarlo, pertanto, lo scopo di questo mio scritto è solo quello di ringraziarli pubblicamente per la dedizione e soprattutto la grande abnegazione e umanità profuse nell’ esercizio della loro professione. Sin dal primo momento tutti hanno avuto parole di conforto, sostegno e incoraggiamento. Non potrò mai dimenticare il personale della terapia intensiva che, non appena le mie condizioni hanno dato qualche segno di speranza, continuavano incessantemente ad incoraggiarmi: «Dai Rocco, stai andando bene», «dai che ce la fai». Per non parlare poi di quel dottore, di cui non ricordo il nome, che ogni qual volta si avvicinava al mio letto, chiamandomi per nome, mi ripeteva il motto bergamasco ormai diventato famoso: «Mola mia».

Queste parole avevano lo stesso effetto dell’ ossigeno che mi veniva propinato costantemente.

Nonostante i turni massacranti non ho mai visto trasparire in nessuno di loro segni di stanchezza. Sembrava che tutti mi conoscessero da sempre per le modalità piene di affetto e umanità con le quali mi si rivolgevano e questo non solo nei miei confronti.

Io spesso e volentieri dicevo loro «che Dio vi benedica» e ciò mi veniva dal profondo del cuore perché oltre a farmaci e ossigeno loro hanno somministrato in me tantissima umanità.

La mia speranza è che alla fine di questo maledetto periodo, perché una fine ci sarà e ne sono certo, chi di competenza non dimentichi quello che tutto il personale degli ospedali italiani, ed in particolare delle regioni più colpite, ha fatto, anche sacrificando la propria vita per salvare tantissime persone, compreso il sottoscritto. Grazie di cuore.

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