«A Bergamo è stata una catastrofe
Noi del 118 abbiamo pianto, come tutti»

Angelo Giupponi, responsabile del numero di emergenza, e Rainiero Rizzini (Soreu delle Alpi) raccontano il mese appena trascorso.

«Siamo pronti a tutto. Non eravamo pronti a questa catastrofe. Qui non si contano gli operatori che fino a pochi giorni fa si prendevano una pausa solo per piangere». Mezzogiorno. Uno dei primi in cui si torna a respirare davvero. Nella sala operativa del 118 all’ospedale Papa Giovanni XXIII squillano i telefoni. Le sirene delle ambulanze riempiono ancora il silenzio delle strade. L’emergenza continua, ma è nulla rispetto al mese appena concluso.

Angelo Giupponi e Rainiero Rizzini portano sulle loro spalle il peso di anni d’esperienza in prima linea. Il primo è responsabile dell’articolazione aziendale territoriale del 118, il secondo responsabile operativo della Soreu delle Alpi che comprende la centrale di Bergamo. Gente imperturbabile, abituata a lasciare le emozioni fuori dalla porta. Oggi è impossibile. Perché rivivere questo mese e mezzo di assoluta emergenza significa far tornare a scorrere nelle vene il dolore per la perdita di un compagno di lavoro, l’immane fatica quotidiana, l’impotenza di fronte alla morte. Per fortuna anche la consapevolezza che, forse, il peggio è passato.

Rizzini si affida a uno schema a tre fasi per fare ordine nei suoi pensieri. «La prima è quella in cui si è scatenato l’allarme e il panico. Abbiamo dovuto gestire il triplo delle chiamate rispetto a un giorno normale, ma molte di pura consulenza. Nella seconda fase c’è stato un aumento esponenziale delle chiamate di tipo sanitario, con richieste di soccorso continue. Il carico di lavoro ha comportato un allungamento di tutti i processi. E queste implicazioni sono state emotivamente impattanti anche per i nostri operatori. La terza fase è quella che stiamo vivendo. È in atto una riduzione, ma non si può dire che il Covid-19 sia sotto controllo».

Un passo indietro, al 22 febbraio: è il giorno in cui Giupponi si rende conto di trovarsi al cospetto di qualcosa di mai visto. «Ci siamo resi conto che iniziavano ad esserci molti pazienti provenienti dalla media Valle Seriana, con gli stessi problemi. Il 23 pomeriggio alle 14 decidiamo di convocare una riunione urgente con i responsabili delle associazioni di soccorso. Di fatto non sapevamo ancora cosa stava succedendo. C’era qualcosa che ci spaventava. Era necessario un piano preciso: stazioni di sanificazione a disposizione di tutti i mezzi. C’è stata grande cooperazione tra le associazioni. Il risultato è che pochissimi operatori si sono ammalati».

Poi si è capito che la portata del dramma era ben più estesa. «Areu ci è venuta in soccorso mettendo a disposizione 55 mezzi in più sulla nostra provincia. Un numero notevole, ma gli ospedali hanno iniziato ad andare in tilt. Non c’erano più spazi e letti. Chi parla di tsunami ha ragione. In quella situazione ho temuto che molti soccorritori facessero un passo indietro. “Chi glielo fa fare?” - mi dicevo». E invece. «E invece nessuno si è tirato indietro. Anzi, in molti si sono presentati e ci hanno dato una mano. Sono arrivati da tutta Italia. È stata una cosa fantastica».

Il 14 marzo, nel pieno del caos, la mazzata che rischia di far crollare tutto. Diego Bianco, 47 anni, operatore del 118, muore nel letto di casa in seguito a una crisi respiratoria causata dal coronavirus. Silenzio. Rainiero Rizzini sospira. «Eh, la morte di Diego. È stato tra i primi operatori sanitari a morire. Tra i primi giovani a morire. L’impatto è stato devastante. Al dolore si è unita la paura di ammalarsi. Paradossalmente è stata la moglie di Diego a sostenere noi. Ci è sempre stata vicina. Fa capire lo spessore umano di queste persone. In quel momento il mondo del soccorso si è raccolto intorno alla provincia di Bergamo e questo aiuto ci ha consentito di continuare. Abbiamo ricevuto il supporto di associazioni di volontariato e delle altre sale operative. Uno spirito di solidarietà fondamentale per superare le fasi più critiche». Che purtroppo non erano ancora arrivate. Intorno al 21 marzo la pressione si fa insostenibile. Rizzini ricorda come se lo stesse rivivendo. «I casi erano tantissimi. Le ambulanze in coda fuori dagli ospedali. Fosse stato un terremoto avremmo più coscienza di quello che abbiamo affrontato. Invece è un’epidemia. E ora dobbiamo iniziare a dirci le cose come stanno: i numeri dicono che è una vera catastrofe».

Una tragedia collettiva che altre province non hanno vissuto. La forza del contagio, la naturale impreparazione di fronte a questa ondata, la paura. Tutto è stato determinante. Giupponi per spiegarlo racconta di Fausto e Roberto. «Due nostri operatori. Malati. Con sintomatologia importante. Abbiamo dovuto fare telefonate pesantissime per convincerli a venire in ospedale. In tutti i bergamaschi è subentrata la paura. In molti casi abbiamo ricevuto chiamate di persone in difficoltà respiratoria, che non volevano però andare in ospedale. Il giorno dopo ci chiamavano per avvisarci che queste persone erano morte. E lì subentra il senso di colpa, il pensiero che non si è fatto abbastanza per convincerli. Forse con una parola in più avremmo salvato una vita. Dal punto di vista psicologico è stata una devastazione. Io stesso ho passato giorni a chiudermi in ufficio per piangere».

La gente ha capito che anche il 118 soffriva, come tutti. Racconta Rizzini che «di solito sono tutti aggressivi. Se non mandi un’ambulanza nel giro di poco le minacce di denuncia non si contano. In questo mese abbiamo ricevuto tanta comprensione. “Guardi che l’ambulanza purtroppo arriva tra due ore”- ci è toccato dire. E la risposta era solo un semplice “grazie”». La speranza di Angelo Giupponi è che questa dolorosa esperienza rimanga unica nella storia di questa terra. «E vorrei che la gente non dimenticasse quello che è successo e ne facesse tesoro. Se in un mese ricominciamo a chiamare il 118 per il mal di denti, i nostri sacrifici non saranno serviti a nulla. Abbiamo fatto il possibile e l’impossibile. La gente bergamasca è stata incredibile. Ogni giorno riceviamo pasti pronti, pizze, materiale fondamentale per la sanificazione da parte delle aziende. Quasi tutti da donatori anonimi. Con un biglietto e un grazie. È una delle cose che ci ha fatto andare avanti a testa bassa. Se continuassimo tutti così anche in tempo di pace saremmo una comunità incredibile. Lo spero».

© RIPRODUZIONE RISERVATA