Covid, lo tsunami di Bergamo
In dieci mesi 6.500 le vittime del virus

È stato cronologicamente un anno breve, questo 2020, perché dello scorrere del tempo, qui a Bergamo, si ricorderanno solo dieci mesi e una manciata di giorni, che gravano però come un secolo.

Lunghi come una vita, questi mesi, o come 6.500 vite, quelle che non ci sono più perché strappate dal virus. Cicatrizzati, questi ricordi resteranno nelle biografie di tutti quelli che da Bergamo ci sono passati nel 2020. È stato un anno monco, appunto, iniziato con una data che lo svuota di tutto quel che era accaduto prima: il 23 febbraio, domenica di Carnevale, il coronavirus – fin lì silente seppur serpeggiante – fa breccia in quella che s’innalza a prima trincea occidentale della lotta pandemica.

L’inizio

Quella domenica, il pronto soccorso dell’ospedale «Pesenti Fenaroli» di Alzano Lombardo viene prima chiuso e poi riaperto: all’interno della struttura – ci si rende conto in quei momenti frenetici – il virus era già presente. Tra 21, 22 e lo stesso 23 febbraio erano stati eseguiti i primi tamponi anche in provincia di Bergamo, dopo l’esordio del «paziente uno» a Codogno: la sera del 23 si ha notizia dei primi 4 contagi ufficiali in Bergamasca; il giorno seguente si piange la prima vittima, un 84enne di Villa di Serio.

È in Val Seriana che la carica virale sfonda: il 26 febbraio, quando i casi in Bergamasca sono ufficialmente 20, il Comitato tecnico scientifico analizzando la situazione lombarda «ritiene che non vi siano le condizioni per l’estensione delle restrizioni in nuove aree», oltre alla zona rossa lodigiana. Il 3 marzo, con le infezioni in terra orobica salite a 372, il Cts propone per Alzano e Nembro «di adottare opportune misure restrittive al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue». Non sarà mai istituita, la zona rossa, ma si sceglierà – dal 9 marzo – il lockdown nazionale.

Perché a Bergamo?

Solo il tempo, forse, ne scriverà la risposta. «Le malattie, compreso il Covid, hanno componenti legate alla genetica, agli stili di vita e all’ambiente in senso ampio – premette Roberto Buzzetti, medico, già a capo dell’Ufficio epidemiologico dell’allora Asl –. Geneticamente, è difficile pensare a peculiarità bergamasche. Negli stili di vita, può pesare il lavoro nei luoghi chiusi, uffici o fabbriche. Sull’ambiente, può influire l’inquinamento. Ma sono condizioni che si ritrovano anche in altri territori: per questo una spiegazione ancora non c’è. Resta un dato di fatto: l’incendio, che può scoppiare ovunque, è scoppiato qui; se non spegni subito i piccoli focolai, le fiamme si propagano e possono distruggere tutto. E, usando una metafora, i focolai vanno spenti sul territorio». È la questione dell’organizzazione della sanità, da mesi sui tavoli di dibattito.

La ferita nei numeri

La sommatoria di infiniti drammi sta nelle cifre. A fine aprile, la provincia di Bergamo conta in totale 11.313 infezioni ufficiali da Sars-CoV-2; le indagini sierologiche tratteggiano una macchia del contagio ben più larga: in media diffusa al 24% nella popolazione dell’intera provincia, con un picco del 42,3% nella bassa-media Val Seriana. Attorno al 20 marzo negli ospedali bergamaschi ci sono più di 2 mila ricoverati per Covid, di cui circa 200 in terapia intensiva; quasi un altro migliaio di malati trova cura in strutture fuori provincia, fino all’estero.

Per stimare le vittime reali serve la triste contabilità delle anagrafi: a marzo in Bergamasca sono morte 5.180 persone in più della media mensile del lustro precedente, ad aprile altre 1.025; fanno 6.205 decessi in due mesi. Nel buio, si trovano giorni ancora più cupi: il 18 marzo, quando la prima colonna di mezzi militari carichi di bare taglia la città spenta; il 27 marzo, quando si toccano i 195 morti ufficiali in 24 ore. Un’intera generazione – in ospedale, o nel silenzio delle abitazioni, o nelle Rsa – s’è spenta. A Nembro le vittime del Covid sono 188, ad Alzano 139. A maggio la curva s’allinea al passato, la prima luce. «Il lockdown è servito a salvare migliaia di altre vite in tutta Italia – riflette Buzzetti – perché invece da sola una curva epidemica tende a salire fino a quando non colpisce i due terzi della popolazione».

La tregua estiva

In estate, lo tsunami pare smorzato; tra giugno e agosto in Bergamasca le vittime del Covid sono «solo» 50, e a luglio i nuovi contagi sono in media appena 20 al giorno. Da Ferragosto però un allarme s’accende, l’Rt (l’indice di contagio) torna a sfiorare il 2, cioè ogni positivo contagia in media due persone: sono i bagliori del ritorno del virus su scala più larga.

La «replica», qui diversa

Bergamo, così straziata in primavera, contiene la seconda ondata. Dal 15 settembre a ieri, la Bergamasca registra 12.493 infezioni: pesate su una popolazione di oltre 1,1 milioni di abitanti, ne fanno l’incidenza più bassa di tutta la Lombardia. Si continua però a morire di Covid, da settembre al 30 dicembre sono altre 187 vittime. «Un mese fa è iniziata la flessione dei contagi, ora più lenta – segnala Buzzetti –. Per i prossimi mesi abbiamo di fronte due modelli. Uno fatto dalla prosecuzione dei comportamenti virtuosi con l’aggiunta del vaccino: così fosse, l’orizzonte ci porta al prossimo inverno con una quasi risoluzione del problema. Se invece proprio ora ci si rilassa, ci sarà un nuovo rialzo dei contagi». Dall’inizio dell’emergenza, il bilancio del Covid in provincia di Bergamo lambisce i 6.500 morti. Sono i caduti della guerra piombata su questa terra dal 23 febbraio.

© RIPRODUZIONE RISERVATA