I ricordi da salvare nella casa
con vista sul ponte Morandi

Genova, 14 agosto 2018. Il Ponte Morandi è crollato da un’ ora. Grida, sirene, i primi pugni alla porta. Poi altri pugni, più forti. «Forza, raccolga quello che può e scenda, qui potrebbe venire giù tutto!». Ma Gabriele non si muove. Sta lì e fuma, preso da un amletismo inspiegabile, sul piano concreto/funzionale; spiegabilissimo, sul piano dell’ anima che si ribella al rimbombo, all’ oltraggio, alla brutalità del pratico, della vita che deve continuare.

Quali sono le cose da salvare, da portare con sé nel momento della massima concitazione, quando il Ponte che tagliava il panorama dalla tua finestra è appena crollato, la casa dove la tua vita sembra essersi rappresa, concreta, consustanziata con gli oggetti, rischia di sgretolarsi? «Le cose da salvare» (Neri Pozza, pp. 201, euro 17), ultimo libro di Ilaria Rossetti, ha vinto, non per caso, la quarta edizione del Premio Neri Pozza; è un libro tracimante di sensibilità profonda, acutissima, di una capacità, fuori del comune, di creare formulazioni originali, verrebbe da dire poetiche.

Gabriele Maestrale, in quell’ agosto 2018, ha 64 anni, è in pensione da due, quaranta a insegnare alle medie, un matrimonio finito, non senza strascichi e ingombri nella memoria. Al momento di scegliere cosa portare con sé, prima di abbandonare per sempre il suo appartamento vista ponte, non sa risolversi. Le cose da salvare sono troppe.

È incredibile quanta storia, quanta vita si condensi in poche stanze. E allora si è barricato in casa, in una infinita quarantena ante Covid. Senza elettricità, fornellini a gas per cucinare. Un anno dopo il crollo, una giovane giornalista, Petra Capoani, che lavora per una testata provinciale, viene incaricata di fare un servizio su quell’ unico resistente. Inizia una manovra di avvicinamento, con tanto di fischietto e megafono. E il libro intreccia le due storie, quelle a loro indefettibilmente intrecciate.

Petra ha da poco perso la madre: anche lei, come tutti, è testimonianza vivente di quanto le cose, il passato, le persone ti restino addosso, siano, in qualche modo, «da salvare». Quando va, per la prima volta, sotto casa di Gabriele, vede incombere su di sé il moncone del ponte, presenza che continuamente ritorna, che sembra punteggiare, se non ritmare la narrazione. E tuttavia, quella mattina, pensa solo a sua madre, a quanto le sarebbe mancata per il resto della vita. Perché anche il dolore è un modo per salvare, per tenersi attaccati alle cose.

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