Il futuro del Pd
e le due variabili

Prima va chiusa la crisi istituzionale, poi bisogna aprire la discussione nel partito. L’ indicazione di Renzi era questa ed è quel che sta avvenendo: domenica prossima si apre l’ assemblea del Pd che inaugura la fase congressuale per terminare con le primarie aperte. Un congresso anticipato, in modo che la conclusione coincida con la finestra elettorale di primavera. Dopo lo tsunami referendario, i dem non possono sbagliare alcuna mossa: non possono scaricare sul Paese i loro problemi e, nel mentre, devono ricostruire sapendo che uscire da questo pasticcio significa determinare il futuro nei prossimi anni.

Un Pd che fin qui ha bruciato tutti i suoi leader, sovente predisposto a farsi del male, spesso sull’ orlo di una scissione regolarmente mai avvenuta. Due partiti che convivono in uno, indisponibili entrambi a vedere le cose da un punto di vista diverso dal proprio.Non sono tempi normali e quindi occorre far decantare la situazione, realizzare passaggi per gradi con un di più di ponderazione e con una pur tardiva autocritica. Il contesto non aiuta, perché c’è un nuovo stress test: la mina vagante del Monte dei Paschi conferma che il punto di debolezza del Sistema Italia è quello bancario e questo tocca da vicino il filone toscano del Pd e la vecchia linea della sinistra postcomunista. Renzi è un combattente ferito, ma non vinto: resta in campo, tuttavia la fase d’ oro del renzismo, quella con il turbo, s’ è esaurita. L’ uomo sconta un certo isolamento, benché possa far valere il fatto che il 40% ottenuto al referendum è pur sempre un tesoretto spendibile, senza però potere andare oltre: Cameron, con il 48%, ha fatto le valigie e sarebbe un azzardo mettere sullo stesso piano consensi referendari e di una elezione politica.

Anche l’ opposizione interna, per ora, resta ai margini e non è scontato che riesca a capitalizzare il successo del No. Non è detto, in sostanza, che il campo da gioco sia necessariamente di nuovo fra renziani di varia estrazione e antirenziani. Potrebbe aprirsi uno scenario che supera questo quadro rigido secondo lo schema scomposizione-ricomposizione delle varie anime, considerando due fattori: il tipo di legge elettorale che ci sarà e la prospettiva aperta dall’ ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che s’ è proposto come tessitore delle sigle accampate alla sinistra del Pd. Quel che si muove è il corpaccione centrale, l’ area che vede uniti due ministri uscenti, Franceschini e Orlando: il primo, in ottimi rapporti con Mattarella, di fatto è il leader dell’ area ex popolare e il secondo guida gli ex bersaniani che fanno parte della maggioranza. Franceschini, che potremmo definire «diversamente renziano», durante la maratona referendaria è stato fra i primi a smarcarsi dal metodo del premier.

Si può ritenere che si vada riunendo un fronte-cerniera in grado di sparigliare quel tanto che basta per proporre un vertice meno di comando e più inclusivo. La questione posta dall’ ex sindaco di Milano, che rappresenta il Sì referendario della sinistra, riguarda invece quel che sta oltre il Pd e si capisce perché sia stata accolta da Renzi e respinta da gran parte dell’ area di riferimento di Pisapia. Primo, perché costringe la sinistra critica a uscire dalla rendita di posizione di voler essere sempre minoranza. Secondo, perché i bersaniani temono che una sinistra forte fuori dal Pd li renda ininfluenti e spinga il partito al centro, mentre loro vogliono costruire un’ alternativa a Renzi all’ interno. Il soggetto politico di Pisapia sarebbe in sostanza la replica politica dell’ esperienza civica tutta milanese della sinistra «arancione»: un campo largo alleato del Pd, con le fasce di frontiera rappresentate dall’ associazionismo e dalla borghesia riformista. Una cifra molto meneghina e di difficile esportazione, che comunque garantirebbe una sponda a sinistra per i margini di manovra che Renzi intende prendersi al centro.

Molto dipenderà dalla nuova legge elettorale. Se sarà, come pare, un proporzionale pur corretto, il sistema cambia archiviando quel pezzo di Seconda Repubblica gestita proprio con il Mattarellum, cioè con il maggioritario al 75%. Piaccia o meno, sarebbe la presa d’ atto che con tre poli il maggioritario è difficile da reggere: una questione di realismo. La legge proporzionale si basa su una democrazia meno competitiva, dove le qualità del federatore, di colui che assembla, prevalgono su quelle del leader: il paradosso è che tutto questo tocchi in sorte ad un carattere come quello di Renzi.

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