Il futuro del Pd
e le due variabili
Un Pd che fin qui ha bruciato tutti i suoi leader, sovente predisposto a farsi del male, spesso sull’ orlo di una scissione regolarmente mai avvenuta. Due partiti che convivono in uno, indisponibili entrambi a vedere le cose da un punto di vista diverso dal proprio.Non sono tempi normali e quindi occorre far decantare la situazione, realizzare passaggi per gradi con un di più di ponderazione e con una pur tardiva autocritica. Il contesto non aiuta, perché c’è un nuovo stress test: la mina vagante del Monte dei Paschi conferma che il punto di debolezza del Sistema Italia è quello bancario e questo tocca da vicino il filone toscano del Pd e la vecchia linea della sinistra postcomunista. Renzi è un combattente ferito, ma non vinto: resta in campo, tuttavia la fase d’ oro del renzismo, quella con il turbo, s’ è esaurita. L’ uomo sconta un certo isolamento, benché possa far valere il fatto che il 40% ottenuto al referendum è pur sempre un tesoretto spendibile, senza però potere andare oltre: Cameron, con il 48%, ha fatto le valigie e sarebbe un azzardo mettere sullo stesso piano consensi referendari e di una elezione politica.
Anche l’ opposizione interna, per ora, resta ai margini e non è scontato che riesca a capitalizzare il successo del No. Non è detto, in sostanza, che il campo da gioco sia necessariamente di nuovo fra renziani di varia estrazione e antirenziani. Potrebbe aprirsi uno scenario che supera questo quadro rigido secondo lo schema scomposizione-ricomposizione delle varie anime, considerando due fattori: il tipo di legge elettorale che ci sarà e la prospettiva aperta dall’ ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che s’ è proposto come tessitore delle sigle accampate alla sinistra del Pd. Quel che si muove è il corpaccione centrale, l’ area che vede uniti due ministri uscenti, Franceschini e Orlando: il primo, in ottimi rapporti con Mattarella, di fatto è il leader dell’ area ex popolare e il secondo guida gli ex bersaniani che fanno parte della maggioranza. Franceschini, che potremmo definire «diversamente renziano», durante la maratona referendaria è stato fra i primi a smarcarsi dal metodo del premier.
Si può ritenere che si vada riunendo un fronte-cerniera in grado di sparigliare quel tanto che basta per proporre un vertice meno di comando e più inclusivo. La questione posta dall’ ex sindaco di Milano, che rappresenta il Sì referendario della sinistra, riguarda invece quel che sta oltre il Pd e si capisce perché sia stata accolta da Renzi e respinta da gran parte dell’ area di riferimento di Pisapia. Primo, perché costringe la sinistra critica a uscire dalla rendita di posizione di voler essere sempre minoranza. Secondo, perché i bersaniani temono che una sinistra forte fuori dal Pd li renda ininfluenti e spinga il partito al centro, mentre loro vogliono costruire un’ alternativa a Renzi all’ interno. Il soggetto politico di Pisapia sarebbe in sostanza la replica politica dell’ esperienza civica tutta milanese della sinistra «arancione»: un campo largo alleato del Pd, con le fasce di frontiera rappresentate dall’ associazionismo e dalla borghesia riformista. Una cifra molto meneghina e di difficile esportazione, che comunque garantirebbe una sponda a sinistra per i margini di manovra che Renzi intende prendersi al centro.
Molto dipenderà dalla nuova legge elettorale . Se sarà, come pare, un proporzionale pur corretto, il sistema cambia archiviando quel pezzo di Seconda Repubblica gestita proprio con il Mattarellum, cioè con il maggioritario al 75%. Piaccia o meno, sarebbe la presa d’ atto che con tre poli il maggioritario è difficile da reggere: una questione di realismo. La legge proporzionale si basa su una democrazia meno competitiva, dove le qualità del federatore, di colui che assembla, prevalgono su quelle del leader: il paradosso è che tutto questo tocchi in sorte ad un carattere come quello di Renzi.
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