Muhammad Ali, il pugile leggenda
Dal ring alla lotta contro il Parkinson

di Tony Damascelli - Il ring è al buio. Deserto. Ma il teatro è pieno. Di silenzio e lacrime lontane. Muhammad Alì è morto. Marcellus Cassius Clay con lui. Fine di una vita e inizio di una leggenda. La boxe e lo sport tirano una riga e si fermano, come al suono del gong. Finiamo al tappeto quando l’Arizona ci consegna la notizia.

Gli eroi non hanno il tempo per morire davvero. Risultano più forti, più eterni. Alì è una fetta di vita lunga, bellissima e feroce assieme. È la forza e la debolezza del corpo, è la libertà e la prigionia del Parkinson, una esistenza, la sua, che ha avuto il ring come una stazione di passaggio e non di arrivo, un quadrato nel quale giocare con l’avversario ma mai con la vita che prima lo ha accarezzato, poi baciato e infine stuprato.

L’uomo che urlava al vento la propria unicità ha concluso a 74 anni senza poter più aprire bocca se non per il respiro di addio. Ha insegnato la boxe al mondo, ha cambiato le regole dell’arte rendendola nobile davvero, con l’eleganza del ballerino, la leggerezza della farfalla, la perfidia dell’ape, menando pugni e mai cazzotti, demolendo l’avversario mai con violenza ma con la tecnica, la rapidità di azione e di intelletto, la strategia: come quella notte da film e da letteratura, accadde a Kinshasa, là dove l’Africa nera aspettava di essere onorata e celebrata dai bianchi in riverenza davanti ai due grandi neri, George Foreman, il campione, e Muhammad, lo sfidante.

Erano giorni e settimane di arsura e scirocco maledetto, fare boxe era impresa ardua, la respirazione, i movimenti risultavano imbalsamati, rallentati drogati da un’aria fasulla. Ali aveva capito il giro del fumo, studiò il match dopo aver studiato l’avversario. Foreman pensò di avere i dollari milionari in tasca. Il primo round fu di pugilato già forte, oggi si dice «intenso». Poi Clay-Ali scelse di attendere, andando in contropiede, anzi contromano. Si accomodò lungo le corde, ondeggiando a destra e a sinistra, dando l’impressione di essere ubriaco di colpi, Foreman continuò a colpire ma senza effetto alcuno, Clay-Ali assorbiva come una spugna, poi all’ottavo giro partì la vendetta, via dalle corde scagliò un destro, un sinistro, un altro destro, ancora sinistro e Foreman si svegliò dal sonno africano, incominciò a gironzolare per il ring non sapendo e non capendo dove mai si trovasse, lui medesimo non il ring, infine si sgonfiò sul tappeto. L’arbitro provò a contare, erano pecore che addormentarono Foreman, mentre Ali alzava le braccia nella notte africana e prese a urlare di tutto ai microfoni delle tivù e delle radio: «Nessuno mai più dovrà mettere in dubbio su chi sia il più grande, il più forte, il migliore. Sono iiiooooo».

Aveva perfettamente ragione, anche perché dargli torto sarebbe stato un rischio con finale garantito. Lui era un mago anche a prevedere a quale round sarebbe venuto giù come un fico secco il rivale di turno, incominciò con Archie Moore: «Tenete aperte le porte del palazzetto, la gente andrà via a casa dopo il quarto round», e così avvenne. Andò a casa anche Moore con la sua mascella. Furono anni d’oro, dopo l’oro ai Giochi di Roma. Oro vero, dollari e gloria, titoli mondiali, tre, fama, film, musiche, libri, mogli (quattro), figli (sette) più varie ed eventuali tra amanti e concubine. Marcellus Cassius Clay junior diventa Muhammad Ali proprio per volere della seconda moglie, Khalilah Camacho, un bel tipino che, oltre a confezionargli quattro pupi, tre femmine e un maschietto, lo prese letteralmente a schiaffi dopo qualche fuitina.

Lady Khalilah era musulmana, va da sé che Cassius fu costretto a cambiare nome, cognome e religione. Rifiutò di andar soldato, con i Vietcong non aveva nulla in sospeso mentre con i bianchi, non soltanto quelli del Kkk, la guerra era aperta, tanto che l’oro di Roma finì nel fiume dell’Ohio dopo che uno screanzato di ristoratore si rifiutò di servire il nostro. Niente Vietnam e dunque «tre anni e mezzo di cella di rigore»: fuori da tutto, niente carte di credito, niente incontri, niente soldi, questa è l’America, dove la Statua della libertà sta all’arrivo ma poi scompare.

Muhammad Ali è stato la statua dello sport, non soltanto della boxe, ha avvicinato a questa disciplina quelli che la ritengono un’offesa all’uomo e alla sua dignità, ha usato le mani non per picchiare ma per vincere, così gli è riuscito cinquantasei volte, trentasette per ko, con cinque sconfitte in tutto. Ha demolito montagne, ha accettato sfide impossibili, ha reso a volte dolce uno sport dal sapore acre. Lascia fotogrammi che nessuno potrà mai bruciare, l’urlo di rabbia e del vincitore su Sonny Liston che giace al tappeto, il tedoforo malato e tremante che accende il tripode di Atlanta e dice: «Dio mi ha mandato la malattia per farmi sapere che il numero uno non sono io, è lui».

E poi l’eroe celebrato a Hollywood con l’Oscar per il docufilm di Gast «Quando eravamo re», pellicola sui rumori della foresta di Kinshasa. George Foreman, quella sera, lo accompagnò sul palco, per gli onori del pubblico di attori grandi. Ali si reggeva a fatica, si appoggiò al corpo di colui che aveva colpito e umiliato nella notte africana; lo sguardo era quello di un uomo che tutto vede, tutto ascolta ma nulla può più dire, fare, muovere. Per essere il più grande, il migliore. Ancora. Sempre. Ma così sarà.

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