Padura Diaz: «Pensiamo a tutti, non solo a noi stessi. Solo così ci salviamo»

Il giocatore di pallavolo Williams Padura Diaz: «A chi non crede alla malattia dico soltanto di informarsi e di guardare a chi ha perduto i propri cari».

Il Covid ha tolto tanto, quasi tutto. Ma quel che la pandemia ci ha sottratto, il vaccino può restituircelo. Williams Padura Diaz, 36 anni, cubano di nascita e ormai italiano d’adozione, opposto dell’Agnelli Tipiesse, tra i protagonisti della stagione degli alfieri della pallavolo maschile bergamasca, la pandemia la sfida con le stesse qualità che mostra sul campo: forza, intelligenza, volontà.

Per chi ha una biografia srotolata attorno al mondo, da Cuba a Bergamo, il virus globale ha colpito profondamente negli affetti, oltre che nella professione; e quando la ricerca ha messo a segno il punto più importante, cioè il vaccino, Padura Diaz – fratello di Angel Dennis, formidabile schiacciatore da anni protagonista in A1 – non ha esitato a scegliere le ragioni della scienza.

Anche perché, come racconta con delicatezza, la sua storia familiare mette al centro l’importanza della medicina e della prevenzione: la salute degli altri prima della propria, soprattutto se si ha a che fare con un figlio, con un bimbo. E sospira, Willie, quando gli si chiede che cosa gli abbia tolto la pandemia: «Il Covid, in generale, ha rovinato il mondo».

Quasi due anni di emergenza: cosa resta, oggi, di tutto ciò?

«Non siamo più gli stessi. Noi esseri umani abbiamo tanto bisogno di contatto con le altre persone. Di abbracciarci, di salutarci, di vederci spesso. Io, personalmente, sono molto affettivo, attaccato alle persone a cui voglio bene. Il Covid ha fatto tanto male al mondo. Poi c’è il resto: economicamente, materialmente e sportivamente, è stato un disastro».

I suoi affetti sono divisi tra l’Italia e Cuba. Come vive questa pandemia?

«Purtroppo durante la prima ondata ho perso mia mamma a Cuba. Non per il Covid, per un’altra malattia, ma non sono neanche riuscito a salutarla. È stato così veloce e traumatico».

Gioca a Bergamo da quest’estate, ma tutta Italia e tutto il mondo nella primavera del 2020 ha seguito quel che accadeva in questa terra. Che ricordo resta, della prima ondata?

«Seguivo quel che accadeva a Bergamo perché conosco bene il club e ho giocato anche a Monza in passato. Quelle immagini, quelle dei camion militari in particolare, erano impressionanti. Sono stati mesi difficilissimi, di solitudine. Si è fermato tutto ed era giusto così: prima dello sport, c’è da pensare alle persone. Perché quando se ne vanno, come è successo per migliaia di persone col Covid, poi non tornano. Il mondo sarà sempre triste per questa tragedia».

Ora però c’è il vaccino. Che cosa ci restituisce l’immunizzazione?

«Da tanto tempo aspettavo il vaccino, non vedevo l’ora lo sviluppassero. Come sanno in molti nel mondo della pallavolo, ho un bimbo di quattro anni che è nato con un problema al cuore e ha subìto un intervento delicato al quinto mese di vita. Per questo sono assolutamente favorevole alla medicina, alla scienza».

Favorevole al vaccino senza dubbi?

«Da quando sono in Italia, ogni anno ho sempre fatto l’antinfluenzale. Ero abituato a farlo anche a Cuba, tutti gli inverni. Sono molto favorevole, per principio. Appena ho saputo della possibilità dell’anti-Covid, non vedevo l’ora e lo stesso è stato per mia moglie. Ci siamo subito vaccinati, anche e soprattutto per proteggere il nostro bimbo. Questa malattia non è da sottovalutare».

Cosa si sente di dire a chi non si è vaccinato?

«Rispetto tutti, ma è importante fare una scelta. A chi non crede alla malattia, a chi pensa che sia tutto inventato, dico di informarsi: di guardare a chi ha perso i propri cari, pezzi della propria famiglia. A chi ha dei dubbi, dico che in questo momento è più importante pensare a tutti, e non solo a noi stessi. La malattia si può fermare solo in un modo, col vaccino, e facendolo tutti».

Il vaccino come gesto d’altruismo?

«Ci sono persone che hanno malattie per cui è sconsigliata la vaccinazione. Ecco: se ci vacciniamo noi che possiamo farlo, proteggiamo chi è più fragile. Magari se siamo giovani pensiamo che a noi tanto non succederà niente, perché siamo sani e forti, anche se ci contagiamo. Ma dobbiamo pensare ai più anziani, ai padri di famiglia, a come ridurre la possibilità che si ammalino gli altri».

Certo bisogna pensare anche al resto del mondo.

«Il virus è globale, serve vaccinare tutto il mondo. I fatti sono chiari. Penso ad altri Paesi d’Europa: il Portogallo, per esempio, è tra quelli col più alto tasso di vaccinazione e ha meno restrizioni. Fa piacere pensare che ci siano persone con la testa sulle spalle. Ricordo, a proposito di fatti globali, anche l’arrivo dei medici cubani in Lombardia nella prima ondata: un bell’aiuto».

Come sportivo, come ha vissuto i momenti più duri dell’emergenza?

«Sono stati mesi difficili, di stop. Giusto così, c’erano cose più importanti a cui pensare. Anche se è stato difficile non poter uscire di casa, non allenarsi, essere soli, e poi ricominciare con le partite senza pubblico».

E col vaccino, cos’è cambiato?

«Basta guardare al palazzetto. Finalmente è tornato il pubblico, il tifo. La mia paura generale, credo anche abbastanza fondata, è che si fatichi a tornare alla vita normale, oppure che non ci si ritorni proprio. La pandemia è uno choc. Piano piano però spero che si riprenda, e il vaccino è la strada da percorrere. Ne ho bisogno, ne abbiamo tutti bisogno: la normalità era molto bella. Sembra strano da dire, forse non ce ne accorgevamo perché abbiamo sempre vissuto così. Come per le partite: adesso c’è calore, c’è affetto, c’è la gente bergamasca. Tutta un’altra cosa».

Qual è il messaggio conclusivo?

«Vorrei fare anche io un appello a tutte le persone indecise. Prima di dire no alla vaccinazione, documentatevi. Bisogna sempre pensare alla salute degli altri. Da padre di famiglia, con un bimbo che non si può vaccinare per una questione di età ma che ha problemi di cuore, appena abbiamo avuto la possibilità di vaccinarci, io e mia moglie lo abbiamo subito fatto: avevamo paura per il nostro bimbo».

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