Riti «voodoo» e prostituzione
Condannati un italiano e due nigeriane

Quattro anni e quattro mesi di reclusione per mamma e figlia e per il fidanzato di quest’ultima. Secondo l’accusa la madre avrebbe gestito e controllato un traffico di giovani connazionali, costrette sulla strada anche con la minaccia di «vendette rituali», con la complicità degli altri due imputati.

Tre condanne per sfruttamento della prostituzione. Sono quelle pronunciate oggi, giovedì 6 giugno, in rito abbreviato dal giudice dell’udienza preliminare Lucia Graziosi nei confronti di due cittadine nigeriane, madre e figlia, e del fidanzato di quest’ultima, un ex guardia giurata. A tutti e tre gli imputati il gup ha inflitto 4 anni e 4 mesi di reclusione, confermando in sostanza le richieste del pm Laura Cocucci. Le due donne sono in carcere.

Secondo l’accusa, la madre, O. J., 45 anni, la «mummy» o «maman» nigeriana, avrebbe organizzato, gestito e controllato il traffico di giovani connazionali costrette a prostituirsi. La figlia, O. L., 23 anni, avrebbe controllato per conto della madre; lui, G. V., 59 anni, il fidanzato italiano della ragazza, avrebbe materialmente accompagnato le giovani sulla strada. I tre erano stati arrestati nell’ottobre scorso dalla Squadra mobile della polizia su ordinanza di custodia cautelare nell’inchiesta «Sister Joy».

L’inchiesta era nata dalle denuncia di una ragazza nigeriana arrivata in Italia a fine 2015 con la promessa di un lavoro nella moda e 35 mila euro anticipati dalla «maman» e da restituire in due anni. Arrivata in Italia, alla ragazza erano rimasti i 35 mila euro da restituire in due anni lavorando sulla strada, tra Osio e Capriate, e lo spettro del «juju», il rito voodoo fatto in Nigeria dalle famiglia fino al pagamento del debito, pena la minaccia di gravi conseguenza per effetto dei poteri della «mummy». La ragazza aveva estinto il debito nel febbraio 2017, decidendo di sporgere denuncia. Al processo la difesa – l’avvocato Stefania Russo per le due donne e l’avvocato Ezio Cerea per l’uomo – ha chiesto l’assoluzione contestando l’attendibilità della parte offesa.

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