È morto Gianni Cavina, mille volti per i film di Pupi Avati

Consumato caratterista Se n’è andato venerdì notte a Bologna, all’età di 81 anni. Nato a Bologna, nel 1997 aveva vinto il Nastro d’argento per la sua interpretazione in «Festival». Malato da tempo, il regista bolognese per l’inedito «Dante», atteso in sala a settembre, lo aveva fatto recitare a letto.

È stato Pupi Avati a divulgare la notizia della scomparsa di Gianni Cavina, ieri notte a Bologna, all’età di 81 anni. Era malato da tempo. Nell’immaginario del cinema italiano, senza Pupi Avati il volto e la bonomia di Cavina non esisterebbero. E in verità senza la complicità e l’amicizia con la famiglia Avati, Gianni sarebbe probabilmente rimasto solo un simpatico caratterista dialettale. Se però si va a cercare meglio nella sua biografia ci si ritrova davanti una personalità e una storia più complessa: nato a Bologna il 9 dicembre 1940, si era formato alla scuola teatrale di Franco Parenti, partecipando poi alla tumultuosa e allegra vita artistica della città, dividendo perfino con Lucio Dalla il palcoscenico nel cabaret per debuttare al cinema grazie al giornalista-regista Raffaele Andreassi che nel 1968 lo chiama sul set di «Flashback» con cui partecipa al festival di Cannes e vince il Globo d’oro per la migliore opera prima.

Un legame tra cinema e jazz

L’incontro con Pupi Avati, cui lo lega la passione per il jazz e quella per il cinema, avviene nello stesso anno con «Balsamus», storia ai confini del grottesco che passa però sotto silenzio. Ci vorrà la garanzia di un attore noto come Ugo Tognazzi e una fantasiosa sceneggiatura (a cui Cavina partecipa in prima persona) perché il suo nome cominci a diventare familiare ad attori e produttori: il film è «La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone» che impone anche il regista Avati nel 1975.

Il sodalizio con Pupi Avati porta poi al successo di «La casa dalle finestre che ridono» (1976), «Tutti defunti… tranne i morti» (1977), «Le strelle nel fosso» che fanno del regista bolognese un giovane maestro tra horror e fantasy. Nel 1979 Cavina conquista il suo primo ruolo da protagonista nei panni di Padre Lino in «Adsalut Pader» diretto da Paolo Cavara e da lui sceneggiato insieme a Enzo Ungari. Seguiranno «L’ingorgo» di Luigi Comencini, «Il turno» di Tonino Cervi, «Per favore occupati di Amelia» di Flavio Mogherini.

Il vero successo in televisione

Nella vita di Cavina però Pupi Avati ritorna sempre più spesso da mentore e protagonista: alla fine lavoreranno insieme più di 20 volte, fino all’ancora inedito «Dante» in cui interpreta il notaio Pietro Giardino, nonostante la malattia già in stato avanzato. I primi veri successi comuni sono stati però le due serie televisive «Jazz Band» e «Cinema!!!» alla fine degli anni ’70, mentre resta indimenticabile il suo Ugo Bondi, incallito giocatore di poker in «Regalo di Natale» del 1986, presentato in concorso alla Mostra di Venezia. Cavina ci tornerà dieci anni dopo con «Festival» (sempre per la regia di Pupi) con cui conquisterà in Nastro d’Argento come miglior co-protagonista. Le interpretazioni senza il suo amico dietro la macchina da presa rimarranno occasionali: ad esempio ne «Il regista di matrimoni» di Marco Bellocchio, o in «Benvenuto presidente» di Riccardo Milani. Con un’eccezione che diede a Gianni Cavina una grande notorietà all’inizio degli anni ’90: la serie tv «L’ispettore Sarti» di Giulio Questi, Maurizio Rotundi e Marco Serafini dall’indimenticabile personaggio creato dal giallista Loriano Machiavelli. Con la sua voce pastosa, il fisico robusto, le mani grandi come pale, il sorriso di volta in volta ammiccante e dolcissimo, Cavina conquistò la platea televisiva, apparve in produzioni internazionali, diventò perfino un volto della pubblicità.

Come attore aveva mille sfumature

L’attore aveva mille sfumature da consumato caratterista, svariando dall’eccesso farsesco alla raffinatezza comica, dall’intensità tragica e dolente alla naturalezza realista dell’uomo qualunque. Ma era l’uomo a diventare indimenticabile anche dopo soltanto un incontro. Riservato fino all’eccesso, geloso dei suoi affetti familiari, accompagnato da una nota malinconica che celava dietro risate contagiose, Gianni sapeva farsi amare immediatamente, offrendo quella complicità spontanea che solo i veri emiliani sanno coltivare. Difficile ricordare una sua parola contro colleghi e amici, impossibile vederlo litigare veramente con Pupi e Antonio Avati. La loro storia è quella di un’amicizia generosa che non è mutata in 45 anni di vita artistica in comune.

Con Gianni «va via un pezzo molto importante della mia vita non solo professionale» ha detto ieri Avati, molto addolorato. «Purtroppo lo presagivo, stava male da tanto tempo, ma era sempre positivo sulla sua lunga malattia. Quando ci sentivamo al telefono mentiva perché non voleva che ci si preoccupasse per lui. Per il mio film su Dante (atteso in sala a settembre, ndr) era venuto con grande coraggio a Roma a girare, ma io sapendo che non stava per niente bene gli avevo fatto interpretare un uomo allettato, in modo che non si stancasse. Mi mancherà molto come d’altronde mi manca Carlo Delle Piane».

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