
Delta Index
Lunedì 11 Agosto 2025
La Gen Z fa «ghosting» alle aziende
«Coerenza e inclusione per attrarli»
CAPITALE UMANO . Due giovani su tre interrompono il processo di selezione e scompaiono senza dare spiegazioni. Marina Verderajme (presidente Gidp): «Non è arroganza, è consapevolezza: capiscono subito se quel posto non fa per loro»
Il lavoro non si cerca più solo con un curriculum. E non si sceglie più solo per uno stipendio. I giovani della Generazione Z cercano flessibilità, ascolto, prospettive, ma soprattutto coerenza tra ciò che le aziende raccontano e quello che poi realmente offrono. A dirlo non è un influencer o un coach, ma Marina Verderajme, presidente nazionale di Gidp, l’associazione che riunisce oltre 4.500 direttori del personale italiani.
Nell’intervista rilasciata all’Osservatorio Delta Index, Verderajme parte dalla XXXV indagine annuale Gidp per raccontare i nuovi gap generazionali. Ma soprattutto per indicare le strade possibili per colmarli. A partire da una convinzione forte: la disconnessione è ormai sistemica e non riguarda solo le competenze, ma l’intero modo di interpretare il lavoro.
Gli ostacoli dell’assunzione
Secondo l’indagine, solo il 26% dei giovani afferma di non aver incontrato ostacoli nel primo accesso in azienda. Una percentuale che ribalta la narrazione dominante, quella che li descrive come «pigri o choosy». In realtà, quasi tre su quattro fanno fatica. E quando non trovano apertura, guardano altrove. Anche oltreconfine. «E lì trovano ciò che qui manca: maggiore fiducia, più concretezza, più possibilità di fare esperienza sul campo fin da subito». E spesso scelgono di non tornare.
Il lavoro, per la Generazione Z, non è più solo un mestiere. «Chiedono autonomia, equilibrio, capacità di incidere» spiega Verderajme. «Per loro lo smart working non è un benefit ma una condizione di normalità. Non vogliono più sacrificarsi per organizzazioni che non li rappresentano. E non è un capriccio, è una nuova visione della dignità del lavoro».
Ascolto e spazi di crescita
Un cambiamento culturale che non può più essere ignorato. Perché oggi le imprese competono anche sulla qualità dell’ambiente interno, sulla reputazione valoriale, sulla capacità di costruire contesti in cui i giovani possano riconoscersi. E questo vale in modo particolare per le Pmi, che spesso faticano a competere sul piano economico, ma possono farlo – e vincere – su quello umano. «Una piccola impresa che dà ascolto vero e spazi di crescita concreti può risultare molto più attrattiva di una multinazionale strutturata ma impersonale», sottolinea.
Ma le imprese, troppo spesso, rispondono ancora con strumenti vecchi. A partire dalla comunicazione. L’employer branding fatto di slogan e video emozionali, secondo Verderajme, è ormai inefficace. «Le aziende non devono andare nelle scuole a raccontarsi, devono entrarci davvero. Il luogo più strategico per attrarre è proprio la scuola, perché è lì che passano tutti i ragazzi. Il tempo delle presentazioni spot è finito. Serve un lavoro quotidiano di presenza, condivisione, testimonianza concreta». Il tema, aggiunge, non è «andare dai giovani», ma costruire ponti stabili e sinceri con il loro mondo.
Serve coerenza
La parola chiave è coerenza. Ed è anche quella più fragile. «I giovani riconoscono al volo l’incoerenza. Se prometto inclusione ma non ascolto, se dico di valorizzarli ma poi li ignoro, se racconto la flessibilità e poi controllo le presenze al minuto: il legame si spezza. La comunicazione aziendale deve essere la conseguenza di una cultura autentica, non una strategia di marketing». E la coerenza, ricorda Verderajme, si costruisce nel tempo, con gesti quotidiani, feedback onesti, attenzione reale.
Un altro punto critico sono i colloqui. Sebbene oggi il problem solving abbia superato le competenze tecniche come criterio di selezione, nei processi di recruiting la coerenza tra ciò che si cerca e ciò che si offre ancora manca. «Tutti parlano di soft skill, ma pochi le sanno davvero riconoscere. E chiediamo creatività, ma poi premiamo chi esegue. Così anche la soft skill migliore si spegne». I giovani, spiega, hanno bisogno di sentirsi protagonisti, anche in piccole cose. E capiscono se le domande servono davvero a conoscerli o sono solo di facciata.
Non lasciarli mai soli
E non si tratta solo di selezionare, ma di accogliere. Di costruire un onboarding che non sia un semplice adempimento formale, ma un’esperienza reale di integrazione. «Non basta presentare l’organigramma e assegnare una scrivania. Serve accompagnamento. Serve affiancamento. Serve mentoring. Non servono grandi budget. Serve intenzione. Le grandi aziende si stanno strutturando con Academy interne. Le medie e piccole devono fare lo stesso, con gli strumenti che hanno. Non possiamo più permetterci di lasciare un giovane da solo in azienda, con l’illusione che basti una mansione per creare appartenenza».
Risultato: il colloquio, anziché essere un incontro tra bisogni reciproci, si trasforma in un test a senso unico. E sempre più spesso sono i giovani a fare ghosting. Non per arroganza, ma per consapevolezza. «Perché hanno alternative, e perché si accorgono subito se un’azienda non fa per loro. E noi, come imprese, dobbiamo imparare a farci scegliere. Se vogliamo persone motivate, dobbiamo motivarle fin dal primo contatto». Anche la selezione, dunque, è relazione. Non può essere solo verifica. Deve diventare promessa reciproca.
Il caso: non ascoltato, se ne va
Poi c’è il caso concreto, che dice molto più di mille slide. Un ragazzo entra in un’azienda, si occupa di grafica. Dopo un mese propone delle idee. Il titolare gli dice: «Sei appena arrivato, lascia stare». Un mese dopo ha già quattro offerte e se ne va. Non cercava soldi. Cercava spazio. E l’ha trovato altrove. È un episodio, ma è anche un simbolo. E non è un caso isolato: i dati lo confermano. «Ci sono decine di casi così ogni mese. E spesso le aziende nemmeno se ne accorgono. Pensano sia colpa loro. Ma è colpa nostra».
La formazione non è un costo
Una dinamica che si ripete. Per questo, spiega Verderajme, è ora di smettere di considerare la formazione un costo. «Formare è l’unico modo per trattenerli. Anche utilizzando i fondi interprofessionali, ancora poco conosciuti. Ma soprattutto serve legare la formazione a un senso di appartenenza. Senza quello, nessun contratto basta». La formazione va vissuta come costruzione di identità aziendale. E non deve essere generica: serve su misura, continua, collegata a obiettivi e responsabilità.
E proprio sul contratto si gioca un’altra partita. Secondo Gidp, solo 1 giovane su 4 entra oggi con una forma stabile. L’apprendistato, strumento utile e agevolato, resta sottoutilizzato. «Serve un cambio di mentalità. Ma anche di linguaggio. Parliamo di progetto di ingresso evolutivo, non di apprendistato. Dobbiamo rendere moderno anche il modo in cui presentiamo le opportunità». Perché anche le parole contano: attraggono o respingono. E i giovani oggi sanno leggere tra le righe. «Abbiamo bisogno di contratti che non parlino solo di vincoli, ma di visione. Di esperienze che facciano sentire parte, non solo prestatori di servizio».
Il valore di ogni età
Infine, un invito all’inclusività generazionale. «Tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo sentiti troppo giovani o troppo vecchi per qualcosa. Partiamo da lì per costruire una cultura del lavoro che riconosca il valore di ogni età. I giovani oggi chiedono senso. Non per capriccio, ma per dignità. E ascoltarli non vuol dire compiacerli. Vuol dire comprenderli». E se vogliamo davvero costruire aziende capaci di durare, dobbiamo smettere di trattare i giovani come «diversi» da integrare. Sono parte del presente. E meritano di esserlo.
Perché la vera sfida, oggi, non è solo attrarre. È trattenere. E per trattenere bisogna ascoltare. Anche quando i giovani propongono troppo presto. Anche quando non usano le parole giuste. Anche quando chiedono più di quanto siamo pronti a dare. Lavorare con loro, conclude Verderajme, significa «accettare che non possiamo chiedere fedeltà se non siamo disposti a dare fiducia».
Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index
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