L’appello di un prof cieco
fa emergere l’io dei ragazzi

«Sprechiamo la maggior parte del nostro tempo e delle nostre energie a nasconderci, ma sotto sotto vogliamo venire alla luce». Detto da un professore cieco, può sembrare una di quelle battute che si usano per sdrammatizzare, o un saggio di ironia involontaria.

E invece è il filo rosso che corre lungo tutto l’ultimo romanzo di Alessandro D’Avenia («L’appello», Mondadori, pp. 341, euro 20), estrema sintesi del metodo di insegnamento del suo protagonista, docente non vedente in una classe che pare un’orchestrina delle fragilità e del dolore umano, espressione di un’infelicità corale, a cui ciascuno partecipa con timbro «inconfondibile» e individuo: Elena a cui il tumore della madre ha insegnato la paura di vivere; Achille guerriero impavido della tastiera (hikikomori); Cesare cresciuto senza amore; Stella precipitata dalla morte del padre nella versione sbagliata della vita; Oscar che con la vita è in cronico conflitto, e fa pugilato per difendersi attaccando… Se è vero che «ciò per cui vogliamo essere amati, noi, lo nascondiamo», il metodo del professore, a partire proprio dall’appello, è far emergere quel nucleo di fragile e precaria incandescenza che è parte vera e inconfondibile dell’Io, il nome proprio che identifica e distingue.

Perché, paradossalmente, da una parte lavoriamo a nascondere, dall’altra lottiamo per poter essere o almeno sentirci riconosciuti. Lottiamo perché il nostro nome proprio non sprofondi nell’anonimia indistinta di nome comune. E, sempre paradossalmente, il nome proprio dei ragazzi di questa armata Brancaleone della scuola, brancolante verso un’improbabile Maturità, dovrà essere cantato e illustrato da un professore cieco, capace di vederne e farne emergere l’intima essenza e la luce: come Omero, il mendìco cieco, di Ettore e Achille. Proprio Omero, guarda caso, «colui che non vede», si chiama il prof di Scienze, così battezzato dalla madre prof di Letterature classiche. Nomen atque omen, certo: all’ennesima potenza, però, perché il cognome, «Romeo», è anagramma del nome, come a moltiplicare quei sentori di destino che vi sono implicati, contaminandoli con altri che alludono alla più celebre tragedia d’amore, probabilmente, di tutte le letterature di tutti i tempi («Romeo and Juliet»). Si vede (ops, si sente) che D’Avenia il professore lo fa e lo ha fatto davvero: si riconosce, da subito, nell’ansia inquieta che ti prende di fronte a una classe nuova. Del resto, si è vivi non per abitudine, ma «per inquietudine».

© RIPRODUZIONE RISERVATA