Sprazzi di poesia nell’Italia
che si rialza dopo la guerra

Una certa poesia «involontaria» del nostro miglior Neorealismo. Fatta della tanta povertà italiana di allora, di cose concretissime e insieme simbolico-evocative, di lavoro e di fango, di pane bianco come miraggio, dello starsene seduti con le gambe a penzoloni sopra un muretto ad aspettare, massimo dei passatempi, il passaggio sferragliante e fumigante del treno.

È questa la poesia che innerva il piccolo e notevolissimo «Felici di crescere» (Sellerio, pagine 160, euro 13), di Lorenzo Mondo, «storico» critico letterario, lui torinesissimo, de «La Stampa», una vita a studiare autori rigorosamente piemontesi: Gozzano, Fenoglio, Pavese. E, soprattutto gli ultimi due, nella prosa di questo suo racconto lungo/romanzo breve, non sono certo trascorsi invano.

A «crescere», in questo bildungsroman tra città e campagna, pianura e colline del Torinese, è soprattutto Guido, il protagonista, ragazzino di terza media negli anni della seconda guerra, rifugiato, per interessamento dello zio monsignore, in un Collegio ecclesiastico (=orfanotrofio senza riscaldamento) in una città della provincia piemontese. Il padre è rimasto a Torino per mettere insieme uno stipendio «finché i bombardamenti lo consentiranno», la madre è sfollata al paese dei nonni. Totalmente estraneo all’ambiente, dove ha trovato solo umiliazione e fame, Guido scappa, per ricongiungersi alla madre in campagna. Qui vive anni di un esilio che si converte in «pacificata normalità», si sente accolto in quell’ambiente contadino poverissimo ma solidale, in quella vita affacciata su uno stesso cortile. Qui sperimenta la sua prima, pura esperienza d’amore. Da qui vive, attenuato, filtrato da quelle voci di popolo, il terremoto del 25 luglio ’43, la lotta, invelenitasi, fra nazifascisti e partigiani. Nessuna retorica, nessuna enfasi. Colpisce, in questo piccolo libro, la formidabile capacità di resuscitazione della piccola, povera Italia degli ultimi anni di guerra, attraverso oggetti, episodi, personaggi-comparse, formidabilmente caratterizzati/caratterizzanti. La perpetua dello zio monsignore, la Luscin, secca e malmostosa, schiena curva e crocchia di capelli topigni; la malandata corriera su cui il ragazzino va in campagna; la «sala» della maestra Natalina, con i centrini ricamati e la bottiglia del rosolio.

A tanta vividezza/efficacia di rappresentazione non sarà estraneo il fatto che Mondo, classe 1931, quegli anni ed esperienze li ha visti e vissuti in prima persona.

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