Frigeni: «Ho obbedito a un piano che non era mio»

INTERVISTE ALLO SPECCHIO. Missionario del Pime in Amazzonia, padre Giuliano oggi è vescovo emerito: «44 anni felici».

Padre Giuliano Frigeni, del Pime, 76 anni ieri, è un vescovo missionario (emerito) bergamasco, che da 44 anni vive tra Manaus e Parintins, ai confini (e con incursioni anche all’interno) della grande foresta amazzonica.

«Qui – racconta - ci sono municipi di 20 mila persone in cui c’è un’unica parrocchia, alla quale sono legati magari 40 villaggi. Un parroco ci va con le voadeire, canoe a motore. O con barche più grosse: ieri per esempio ne ho presa una, ho appeso la mia amaca, come tutti, e dopo quattro ore sono sceso a Parintins. Il parroco, soprattutto quando deve andare all’interno sta via alcuni giorni, anche 10 o 12, passando di villaggio in villaggio. Ci si va per le feste, Natale, Pasqua o il patrono».

Come è finito in Amazzonia?

«Innanzitutto come bergamasco ho imparato a obbedire, al padre, la madre, il prete… Sono cresciuto facendo quello che mi chiedevano di fare. Dopo, naturalmente, mettevo dentro anche la mia personalità. Prima di entrare in seminario però aggiustavo le macchine da scrivere, ho lavorato alla Ismes (studi idrogeologici e controllo impianti, ndr); ho imparato a fare il barbiere, l’infermiere, poi il Signore mi ha preso per fare l’opera sua e non la mia. Ero lì in fabbrica e mi dicevo: fuori c’è un mondo che ha bisogno di Cristo, di conoscere la bellezza della vita cristiana e io sono qui a saldare tubi. Nel ‘79 il Pime ha deciso di mandare a Manaus me e padre Massimo Cenci, di Bresso: lui era laureato, educatore capace e geniale e l’hanno messo subito a insegnare. Io andavo e venivo su due fiumi, e ho imparato a conoscere la gente della foresta. Mi meravigliavo persino di come potessero studiare, leggere, in un posto in cui nessuno possedeva un libro e non arrivava neanche il giornale».

Oggi c’è un po’ il mito di questo «primitivismo».

«La missione mi ha fatto capire che l’essere umano ha bisogno di incontrare qualcosa di grande. Abbiamo riunito quegli indios che non avevano un villaggio, vivevano distribuiti lungo i fiumi, a qualche centinaio di metri uno dall’altro, perché uno in quel modo ha un pezzo di foresta in più per cacciare, un pezzo in più di fiume o di lago in cui pescare. Abbiamo creato delle comunità, delle agro-ville mettendo insieme queste persone: la vita in sintonia con la natura è una bella cosa, però l’essere umano ha dei desideri molto più ampi. Nel Sinodo sull’Amazzonia voluto da Papa Francesco abbiamo riflettuto molto: noi siamo qua a portare il Vangelo, non possiamo portare lo sviluppo secondo le nostre idee occidentali, o bergamasche. I fratelli del Pime laici lavoravano in questa zona già da quasi sessant’anni. Quando sono venuto qui mi sono detto: porto avanti le cose belle che hanno fatto loro. Poi ci ho messo il mio stile e il mio temperamento, però la cosa che mi è piaciuta di più in questi 44 anni è stato entrare in sintonia con chi ha fatto le cose prima di me, sia il Signore, sia la gente. Qui hanno messo in piedi un ospedale, una scuola per sordi, 11 asili, tre scuole fino ai licei. Hanno costruito una fabbrica di mattoni, aperto una radio le cui onde arrivavano fino in Australia, hanno insegnato l’elettronica e tanti altri lavori, e anche la musica e il teatro, perché l’uomo ha bisogno di bellezza. Io cerco di non disperdere i sacrifici che ha fatto chi è venuto prima di me. Ho vissuto una vita bellissima, e finché gh’è de laurà uno è vivo. Conoscere gli indios, i loro villaggi, i municipi fatti per i caboclos (i meticci, ndr) mi ha costretto a guardare, non imporre la mia cultura ma aprire la mente a ciò che incontravo».

Negli anni ‘70 nella Chiesa si parlava di «evangelizzazione e promozione umana».

«Era un giudizio ben chiaro di Paolo VI: si diceva addirittura: “Evangelizzazione è promozione umana”. Mi ha detto una persona che era stata qui 31 anni fa, che allora i bambini andavano a vendere i ghiaccioli per guadagnare qualche spicciolo: adesso non ce ne sono più. C’è stato un cambiamento che ti dice di una educazione: in questa realtà ci sono dentro molte risorse umane preziose. Durante il Covid ho visto una bambina di 12 anni, Fernanda, che lavorava benissimo all’uncinetto: ho fatto comprare tutti gli strumenti e il materiale di cui aveva bisogno, e così, quando non si poteva andare a scuola, ha aiutato la sua casa. Domani probabilmente sarà una delle educatrici. Io non ci sarò più, ma sono felice di vedere qualcuno che scopre il proprio talento. Queste rughe, forse, mi aiutano a tirar fuori ciò che di bello il Signore ha messo dentro ognuno. Oggi tanti vogliono proteggere la foresta, ma bisogna proteggere anzitutto l’uomo che è nella foresta, che se non incontra una proposta seria, la droga diventa l’alternativa più facile».

Leggi sul sito del Giornale di Brescia l’intervista a Beppe Vigasio, pubblicata anche sull’edizione cartacea de L’Eco di Bergamo di domenica 25 giugno

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