Savoldelli: «Col ciclismo ho realizzato i miei sogni»

INTERVISTE ALLO SPECCHIO. Il «Falco» di Rovetta ha vinto due volte il Giro: «Uno sport di fatica che rispecchia il territorio». Leggi le «Interviste allo specchio», progetto in collaborazione con Il Giornale di Brescia.

Basterebbero due domande per raccontare questo legame. Quello tra Bergamo e il ciclismo, l’abbraccio strettissimo tra un popolo e uno sport. Che cos’è il ciclismo? Sacrificio, lavoro. Qual è l’oleografia del bergamasco? Lo spirito di sacrificio, la dedizione al lavoro. Eccola allora l’assonanza delle risposte, declinata in un impasto di sudore e forza, in un «pedalare» che è contemporaneamente metaforico e letterale. Fuor di retorica, però, c’è realmente una passione pulsante che non conosce stagioni di tramonto. Una fotografia nitida e recente: il bagno di folla per l’ultima tappa bergamasca del Giro d’Italia, lo scorso 21 maggio.

«Per me il ciclismo rappresenta tanto, la strada che ho percorso fin da giovane e che mi ha portato a realizzare i miei sogni», racconta Paolo Savoldelli, il «Falco» di Rovetta, l’ultimo bergamasco a vincere la grande corsa rosa, prima nel 2002 e poi nel 2005.

E per Bergamo, invece, cosa rappresenta il ciclismo?

«I bergamaschi sono grandissimi appassionati di ciclismo, forse non a caso: questa è una terra di faticatori e di lavoratori, caratteristiche che si uniscono molto bene all’essenza del ciclismo, uno sport di fatica e sacrificio. Il legame, anche culturale, è questo».

È una passione che passa di generazione in generazione, nonostante epoche diverse. Com’è possibile?

«La Bergamasca ha avuto la fortuna di dare i natali a Felice Gimondi: tutta la gente della sua epoca lo ha seguito, noi più giovani siamo cresciuti con i racconti di uno dei più grandi del ciclismo, e ancora oggi se ne parla. Gimondi ha vinto tutti e tre i grandi giri (il Giro d’Italia nel 1967, 1969 e 1976, il Tour de France nel 1965, la Vuelta spagnola nel 1968, ndr), il Mondiale (nel 1973, ndr), diverse classiche. Poi è entrato nella storia anche per essere stato il principale antagonista del corridore più forte di tutti i tempi, Eddy Merckx. Questo ha fatto sì che tutti i bergamaschi fossero legati al ciclismo. Poi abbiamo anche una conformazione del territorio favorevole, le bellissime salite».

È qualcosa che sembra quasi essere nel dna. A maggio, la tappa bergamasca del Giro ha richiamato una passione travolgente.

«Non è un caso che come vittorie al Giro d’Italia la nostra provincia sia seconda solo a Varese: oltre ai tre successi di Gimondi, ci sono le mie due vittorie e le due di Ivan Gotti (nel 1997 e nel 1999, ndr), e la prima di Antonio Pesenti (nel 1932, ndr)».

Dopo epoche d’oro, oggi il ciclismo italiano e quello bergamasco faticano a trovare nuovi campioni. Perché? Manca quella «cultura» d’un tempo? O magari perché le strade sono diventate troppo pericolose e non si cresce più con la bici?

«La questione delle strade pericolose c’è da diversi anni, non credo sia quello il problema. È questione di cicli. Ora, per esempio, una piccola nazione come la Slovenia sta vincendo tantissimo con due corridori come Pogacar (vincitore del Tour nel 2020 e 2021, ndr) e Roglic (campione in carica del Giro, ndr). Per l’Italia è un periodo un po’ buio a livello di talenti, ma è accaduto recentemente anche alla Francia».

Quanto si sente la mancanza di un campione, per il bene di tutto il movimento?

«Nibali, l’ultimo italiano a vincere il Tour (nel 2014, ndr), ha tenuto alta la nostra bandiera nell’ultima fase: e senza di lui, bisognerebbe tornare ancora più indietro nel tempo per trovare successi all’altezza delle epoche precedenti. Anche a livello di team si fatica: nel mio periodo avevamo 4-5 squadre italiane di livello mondiale, dalla Saeco alla Mapei, mentre oggi siamo indietro. Faccio un esempio».

Prego.

«Un anno, quando correvo, al Tour de France facemmo una foto di gruppo noi corridori bergamaschi: solo noi bergamaschi, allora, eravamo quasi più numerosi del totale degli italiani che oggi corrono al Tour de France. Erano anni d’oro anche per noi».

Delle sue due vittorie finali al Giro d’Italia, quali immagini le restano impresse ancora oggi?

«Sono stati due Giri molto diversi. Di quello del 2002, la mia prima vittoria, conservo l’emozione della maglia rosa, la tappa del Passo Coe e la crisi di Cadel Evans (Savoldelli lo staccò in classifica a quattro tappe dalla conclusione, ndr). La seconda vittoria, nel 2005, è arrivata dopo anni difficili, in cui non avevo corso e avevo avuto molti incidenti: avevo saltato i Giri del 2003 e del 2004, quelli in mezzo, ed è come se ne avessi vinti due consecutivi. Mi rimane l’immagine della vittoria finale a Milano».

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