«Doppia tempesta sulla mia vita
ma non mi sono mai pianta addosso»

Mamma di due figli colpita prima da un linfoma, poi da un tumore raro con stomia definitiva. Durante l’emergenza Covid Elena Lozza ha cucinato per i medici delle Terapie intensive con altre 20 volontarie.

Uno dei doni più grandi è il tempo, come scrive Khalil Gibran, «È quando offrite voi stessi che date davvero». Vale ancora di più se a spenderlo per gli altri è una persona come Elena Lozza, di Dalmine, che ha attraversato tante tempeste nella vita senza perdere il sorriso, la luce nello sguardo e il desiderio di dare una mano a chi ne ha bisogno.

Nel 2006 ha sconfitto un linfoma non Hodgkin, l’anno scorso le è stato asportato un tumore raro all’intestino e ha subito una stomia definitiva. Nel frattempo, dopo 27 anni nella stessa azienda, è stata costretta anche a cambiare lavoro. Nonostante questo, è andata avanti con grande determinazione e negli ultimi mesi, durante l’emergenza per la pandemia, si è messa a servizio come volontaria, da casa sua: è entrata, infatti, nel gruppo «Cuciniamo per loro», composto da una ventina di cuoche casalinghe che preparavano il cibo per il personale delle terapie intensive degli ospedali del territorio impegnati nella lotta al covid-19: il Papa Giovanni XXIII, l’Humanitas Gavazzeni e l’ospedale di Ponte San Pietro.

Il primo episodio

«L’ho fatto volentieri – racconta con una punta di commozione –, con semplicità, per restituire un po’ della cura e dell’attenzione che ho ricevuto in questi anni dai medici e infermieri che si sono presi cura di me». Sono passati quattordici anni da quando Elena ha scoperto di avere un linfoma: allora aveva due bambini piccoli. Il maggiore, Emanuele, che Elena e il marito Giuseppe hanno adottato poco dopo la nascita, aveva due anni. La seconda, Beatrice, nata alla fine di una gravidanza complicata, aveva pochi mesi. «Di notte sudavo in modo anomalo e mi sentivo sempre stanca. All’inizio avevo attribuito questi sintomi al lavoro, allo stress, alla fatica di accudire i miei figli. Poi mi sono resa conto che c’era qualcosa che non andava ed era meglio approfondire. Dopo una serie di analisi e visite è arrivato quel verdetto. Non sapevo nemmeno cosa fosse un linfoma. Mi è crollato il mondo addosso».

La forza dell’amore

La sua famiglia ha reagito stringendosi intorno a lei in un abbraccio collettivo, sostenendola nelle attività quotidiane: «Mia suocera mi aiutava a pulire e a cucinare, mentre i miei zii e una zia di mio marito si alternavano a turno nella cura dei bambini. Abbiamo trascorso periodi difficilissimi. Ho dovuto affrontare smarrimento, paura e terapie, la debolezza, la perdita dei capelli. Mio marito mi è stato vicino, sempre presente, come un’ancora, non so cosa avrei fatto senza di lui».

Come scrive Alphonse Karr, nella vita «nulla avviene né come si teme né come si spera»: «Le difficoltà mi hanno resa più prudente, più metodica – spiega Elena –. Dopo ciò che mi è successo gli imprevisti mi spaventano ma sono consapevole di avere più armi per affrontarli».

La seconda batosta

Un anno e mezzo fa si sono presentati nuovi disturbi: «All’inizio il medico riteneva che potesse trattarsi di banali problemi intestinali e mi ha prescritto terapie blande e alcuni esami. Purtroppo l’esito non è stato rassicurante. Questa volta ci è voluto un po’ di tempo per arrivare alla diagnosi, anche perché si trattava di una patologia rara: il morbo di Paget extramammario».

Così Elena è tornata all’ospedale Papa Giovanni XXIII, dove l’avevano già curata per il linfoma. «Non mi piace piangermi addosso, sono abituata ad affrontare le difficoltà di petto, anche in questo caso ho seguito la mia linea abituale. Essendo una patologia rara, non c’era un protocollo predefinito da seguire come per il linfoma. Ho avuto la fortuna di incontrare una spettacolare équipe di specialisti». Anche in questo caso la sua famiglia è stata la miniera a cui attingere energia e slancio: «I miei figli ormai sono grandi, hanno capito subito che c’era qualcosa che non andava, finché mi hanno chiesto direttamente cosa avessi. Quando ci siamo preparati all’adozione di Emanuele la psicologa ci ha invitato ad essere sinceri con lui, offrendogli sempre “la verità raccontabile”. Abbiamo seguito lo stesso comportamento con entrambi i nostri figli, anche se in quell’occasione era difficile, ma hanno reagito con coraggio».

Le conseguenze della stomia

Non è stato facile fare i conti con l’idea che l’intervento di asportazione del tumore avrebbe comportato una stomia, cioè l’asportazione di una parte dell’intestino e del retto, una «menomazione», per di più definitiva. «Mi sembrava una condanna a una vita da invalida, e a 48 anni mi sentivo troppo giovane per accettarla. I medici però mi hanno insegnato a fare un passo alla volta. La stomaterapista Viviana Melis mi ha incoraggiata, mostrandomi che avrei potuto conservare quasi tutte le mie abitudini. Sono andata avanti con la consapevolezza che avrei dovuto riequilibrare tempi e ritmi. Ho dovuto imparare ad ascoltare il corpo e ad assecondarne i bisogni». L’intervento è stato impegnativo e la ripresa lunga: «In ospedale però mi hanno coccolata». Poi è arrivato il momento di tornare a casa: «Mi guardavo allo specchio e mi vedevo diversa. All’inizio non è stato facile riconciliarmi con la mia nuova forma, così diversa». Il suo carattere solare e la sua gioia di vivere, però, col tempo hanno prevalso: «Ho cercato di sdrammatizzare, di superare il mio disagio e quello che percepivo negli altri. I miei amici sanno che ho delle difficoltà e mi aiutano a risolverle. Lo fanno con sensibilità, in modo da evitarmi imbarazzi. Prima del covid-19 continuavamo la nostra vita sociale, le gite e le cene in compagnia. Mi piace passeggiare, sto riprendendo il ritmo. Sono stata operata a luglio e ai primi di ottobre avevo già ricominciato a lavorare. Anche la mia azienda e i miei colleghi si sono comportati in modo molto attento e comprensivo».

Elena ha lavorato per una nota azienda di prodotti elettronici per 27 anni: «Avevo un compito di responsabilità, dirigevo un reparto con dieci persone. A un certo punto, però, hanno deciso di spostare la sede lontano. Per mantenere il mio posto avrei dovuto percorrere 100 chilometri ogni giorno, date le mie condizioni di salute non era la soluzione ideale. Così sono stata costretta a licenziarmi. Ho trovato un’azienda metalmeccanica a Terno d’Isola che ha deciso di assumermi a ottobre, a fine gennaio ho scoperto di avere il tumore. Avevo un contratto di sei mesi che scadeva ad aprile, ma i titolari me l’hanno rinnovato in anticipo, nonostante li avessi messi al corrente della situazione. È stato un gesto di grande umanità, non scontato di questi tempi. Mi hanno detto che non c’era alcun problema e che potevo prendermi il tempo che mi occorreva. I nuovi colleghi mi hanno sempre tenuto informata. Al rientro, quando ho avanzato la richiesta di una mensola in bagno per poter provvedere alle necessità igieniche di una persona con stomia l’hanno realizzata subito. Hanno dimostrato la stessa disponibilità e comprensione quando è iniziata l’emergenza per il coronavirus, permettendomi di rimanere a casa dal 28 febbraio fino al primo giugno». Un aiuto prezioso le è stato offerto dall’Associazione bergamasca stomizzati (Abs, www.absbergamo.org, [email protected]): «Me ne aveva parlato Viviana Melis e all’inizio per invogliarmi aveva messo l’accento soprattutto sulla sua funzione ricreativa: le gite, le cene, le nuove amicizie. Mi sono iscritta subito pensando che sarebbe stato utile condividere le mie difficoltà con altri che abbiano avuto esperienze simili. Al primo incontro sono rimasta colpita dal fatto che l’età media dei soci fosse più alta della mia. Poi ho scoperto che parecchi convivevano con la stomia da molti anni, anche dieci o quindici, e avevano quindi molto da insegnarmi. Ho stretto amicizie belle e importanti, ho imparato molto sulla mia condizione. Abbiamo creato una chat in WhatsApp per scambiarci opinioni e consigli. A ottobre ho partecipato a una castagnata promossa da Abs per sensibilizzare il pubblico e raccogliere fondi, gli altri volontari mi hanno subito fatto sentire a casa. Il lavoro di Abs è importante anche per far conoscere alla gente le disabilità “invisibili” come la nostra e far capire quali conseguenze portino».

Volontariato in cucina

Secondo la scrittrice americana Angela N. Blount, «a volte le strade più panoramiche della vita sono le deviazioni che non si aveva intenzione di prendere» e così è stato per Elena: «Nonostante tutto penso che la mia vita sia bella. Ho ripreso le mie abitudini di prima, mi sento serena. Quest’anno purtroppo è capitato il covid-19, e ancora una volta i nostri progetti sono saltati. Mio marito e io compiamo 50 anni e 25 di matrimonio. Pensavamo di andare in Portogallo, mi sarebbe piaciuto un pellegrinaggio a Fatima ma non è stato possibile». Nonostante tutto è riuscita a trasformare la pandemia in un’occasione: «Mi sono reinventata come volontaria da casa. Un’amica mi ha proposto di entrare nel gruppo delle venti cuoche casalinghe, che preparavano i pasti per le terapie intensive, mi piace cucinare così ho deciso di mettermi in gioco, con un sentimento di gratitudine. Ci siamo incontrate solo su WhatsApp, perché di persona non era possibile. Anche cucinare è un modo per prendersi cura delle persone. Alcuni alimenti ci venivano forniti e poi ognuno cucinava quello che voleva, dal primo al dolce. Qualcuno accompagnava i suoi piatti con messaggi e poesie. Ho sperimentato ricette nuove, ce le siamo scambiate tra noi, ho aperto i miei orizzonti gastronomici. È stato bello sentirsi utili e poter dare una mano. Questa esperienza è terminata il 17 maggio. L’ospedale Papa Giovanni ci ha regalato una pianta grassa per ricordo, con un messaggio di ringraziamento che mi ha emozionato». Bastano piccoli gesti, come questo, conclude Elena con un sorriso, per scoprire che «i legami, l’amicizia e la gratitudine a volte sono meglio delle medicine, aiutano a sentirsi più forti e a guardare al futuro con fiducia».

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