Una Chiesa che accetta la sfida della complessità

Appunti di viaggio per chi si interroga su come il Vangelo può essere ancora interessante per l’uomo di oggi

La Chiesa dopo la pandemia

Il Covid-19 ha lasciato un segno profondo sulla società, sull’economia e su ognuno di noi. Anche sulla vita religiosa delle persone, e quindi sulla vita di fede e l’attività pastorale delle nostre parrocchie. Molti, forse proprio a partire dal periodo della pandemia, hanno come azzerato la loro dimensione religiosa.

A ben guardare però quell’esperienza, vero e proprio spartiacque, ha fatto venire a galla ciò che tra la gente era già presente, magari in modo nascosto, dando un’accelerata a cambiamenti culturali e sociali che partono da lontano. Rimane intatta la domanda di fondo, e ora per certi versi è ancora più chiara e definita: come riusciamo a dire il Vangelo agli uomini e alle donne di oggi? Una domanda radicale che chiede una riflessione e una testimonianza da parte di tutti.

Ne è convinto don Alessandro Beghini, parroco dell’Unità pastorale di Villongo e vicario territoriale della Comunità ecclesiale territoriale (CET) 5 Sebino-Valle Calepio: «Occorre condividere il pensiero di una fede che si vive dentro il tempo culturale odierno, dentro la riforma di una Chiesa che ha bisogno di ridirsi in forme diverse, con un linguaggio diverso rispetto a quello con cui si è sempre comunicata. E su questo tema si fa fatica... Credo che il primo compito sia davvero sedersi attorno ad un tavolo insieme, sia chi coordina le parrocchie, a partire da parroci e preti, ma anche dai Consigli pastorali e dai volontari delle parrocchie, per interrogarsi e cercare insieme di tradurre cos’è il Vangelo oggi dentro una cultura che è completamente diversa da quella del passato».

«È una domanda radicale che dobbiamo porci - dice don Alessandro -: riusciamo a ridirci il Vangelo in maniera significativa “dentro” la cultura di oggi? Una cultura che ci pone ritmi di vita inediti che mai prima d’ora abbiamo conosciuto, ritmi di performance altissimi, ad esempio, ritmi economici nella nostra cultura, nel mondo occidentale, ritmi di complessità… Ecco, dentro queste sfide riuscire a dire: ma il Vangelo ha ancora qualcosa da dire all’uomo e alla donna che vive in quest’oggi? A me come uomo, prima di tutto, e poi, insieme, a tutti coloro che cercano di rispondere a queste sfide al meglio che possono. Partire da qui credo che possa poi far nascere un modo nuovo di essere Chiesa».

E se fosse un’occasione per ripartire?

L’esperienza della pandemia, allora, è come se avesse reso più nitida l’esigenza di questo cambiamento, offrendo alla comunità parrocchiale l’occasione di rileggere e ripensare l’attività pastorale nel suo complesso. Togliendo, anche dolorosamente, delle certezze, che impedivano però di mettersi in discussione e di iniziare per davvero un cammino, di “prendere il largo” alla riscoperta del cuore del Vangelo.

«Il Covid – prosegue don Alessandro – ha dato un’accelerata a destrutturare delle convinzioni che nella Chiesa abbiamo sempre avuto, e continuiamo ad avere, e che non ci permettono un cambiamento e questo, secondo me, è un vantaggio. Anche se è difficile da accettare, il Covid ha smontato finalmente alcune certezze che nella Chiesa abbiamo sempre pensato di “dominare”, di possedere…, i pensieri, cosa fare, cosa dire... Ecco il Covid ha destrutturato questo e ha dato un’accelerata, forte, a ciò che c’era già prima, ma che prima non vedevamo così in maniera così netta come forse vedendo adesso».

Allora diventa necessario prima di tutto smarcarsi dal mito della “cristianità”. «Smarcarsi cioè dal pensare che noi siamo ancora un popolo cristianizzato e cristiano. Questo – prosegue don Beghini - lo dico sempre come comunità cristiana e come comunità di fede. Quindi smettiamola di credere che siamo tutti cristiani. No, è finita questa cosa... Dobbiamo uscire da questa visione ed aiutarci a reggere questo lutto emotivo perché in realtà lo diciamo da tanti anni che non siamo più una società cristiana, ma di fatto non ci crediamo. Quindi occorre avviare processi di consapevolizzazione. Ecco, credo che serva un pochino questa cosa: avviare processi di presa di consapevolezza e di disincanto per raggiungere il fatto di non essere illusi e, nello stesso tempo, avviare processi di cammini di fede».

Forme nuove per valori di sempre

In questo contesto un’immagine che rende bene la complessità del momento storico che stiamo vivendo è quella della “dissolvenza”: «Dove l’immagine culturale vecchia non è andata via e c’è ancora, ma è sfocata; ma l’immagine nuova di una vita consapevole e la scelta di un’umanità nuova non è ancora arrivata. Siamo dentro un tempo, a mio parere, in cui la pubblicità e Netflix ci stanno dicendo come essere uomini o donne oggi. In maniera inconsapevole ci guidano un po’ in questa cosa, e viviamo tutti in questa cultura del potere forte, della tecnoscienza e del mito di poter raggiungere ogni cosa: è una cultura che sta dando forma alle nostre coscienze, spesso senza saperne prendere le distanze.
Questa è una dinamica che avviene anche nelle nostre comunità: c’è una richiesta di cose antiche che danno certezza, mentre da altre parti c’è una richiesta di uno sguardo nuovo che chiede di superare le cose antiche. Le proposte e i pensieri che stiamo facendo, all’interno di un tentativo di una Chiesa che si rinnova, cercano di acquisire sempre più consapevolezza della fede che stiamo vivendo e quindi di compiere scelte coerenti con questo».

Forme nuove da cambiare e da re-inventare, quindi, per un messaggio e un fatto che rimane lo stesso da sempre: l’annuncio con la vita – anche per gli uomini e le donne così confusi di oggi – della speranza che la Pasqua di Cristo ha portato nel mondo: «E questa è esattamente la sfida, cioè il messaggio del Vangelo è sempre quello fondamentalmente da 2000 anni…, però nella storia ha sempre cambiato le sue forme. Adesso siamo proprio in un tempo in cui si ha bisogno proprio di trovare nuove forme, come in ogni cambiamento d’epoca o epoca di cambiamento, non so cosa sia meglio dire. Con la cultura di oggi questa cosa è da imparare, non l’abbiamo ancora in mano, dobbiamo proprio impararla».

La testimonianza di Lucia: «Vivere cercando di restare all’altezza dei nostri desideri»

Lucia, 28 anni. Una laurea magistrale in Management Engineering, un lavoro come ingegnere di processo, un impegno appassionato nel campo del volontariato. Radici ben piantate a Zandobbio, ma testa e cuore aperti sul mondo, tanto da avvicinarsi – dopo l’esperienza della GMG di Cracovia, i 6 mesi in Germania e l’anno vissuto in Brasile – al Centro missionario di Bergamo per poter partire in missione. Un sogno che nel tempo si realizza, con un primo mese trascorso in Bolivia.

La incontriamo durante l’indagine che «L’Eco» sta conducendo con l’Università di Bergamo. Tra i 4 ambiti della ricerca c’è anche il senso morale e la vita religiosa. Per comprendere meglio come siamo cambiati, e per raccogliere significativi punti di vista, che possono essere di utilità per tutti.

Lucia, quale è l’immagine di Chiesa che hai maturato?

Sinora sono sempre stata fortunata ad incontrare una Chiesa aperta. Grazie alle figure incontrate nel contesto religioso ho scoperto un’immagine di Chiesa possibilista ed accogliente. Tuttavia, mi accorgo che spesso quest’immagine non corrisponde a ciò che le persone hanno in testa… Credo sia sempre necessaria un’apertura da entrambe le parti. Occorre lasciarsi sorprendere da ciò che va oltre gli stereotipi che si possono associare all’entità “Chiesa”, sforzarsi di scendere nel profondo, alla radice, piuttosto che generalizzare e, allo stesso tempo, serve una Chiesa che effettivamente in tutte le sue ramificazioni continui ad aprirsi e sappia “stare” in maniera estesa rimanendo autentica.

Un dialogo con i giovani ci può ancora essere?

Assolutamente… la cosa che mi preoccupa è l’avvento dell’era social e di come spesso si tenda a dare più importanza ad aspetti superficiali rispetto che alla convivialità o al trascorrere tempo di qualità insieme alle persone. Oggi sembra quasi, paradossalmente, sia più facile scriversi per un’ora su Whatsapp piuttosto che vedersi dal vivo. Sicuramente sono una risorsa preziosa, penso a quante volte mi hanno aiutata ad accorciare le distanze; eppure sono incompleti dell’aspetto corporeo e non verbale che a livello emotivo è fondamentale.

Nella mia esperienza cerco di capire come la fede può parlare alla mia vita all’interno degli aspetti quotidiani e concreti presenti nella nostra società. Come l’interrogarsi ascoltando se stessi possa essere sostituito sui social un po’ mi spaventa, è come se fossimo continuamente sdoppiati tra ciò che è reale e ciò che è virtuale.

Tante volte ci troviamo ingabbiati in un loop di reels e storie su Instagram che ci mostrano cose apparentemente vere, a cui ci affidiamo, ma che non riescono a trovare un riscontro nella realtà. Magari ci sentiamo inadeguati tra tutta l’apparente perfezione che ci circonda o perdiamo il focus da ciò che realmente conta per noi.

Hai visto un cambiamento pre e post Covid?

Sì. Il Covid è stato una bella mazzata alla vita di tutte le persone, non solo per i più giovani, ma per chiunque, di qualsiasi età. Siamo stati tutti travolti, per la prima volta, da una fase depressiva incredibile.

Le nostre vite frenetiche sono state interrotte da un giorno all’altro, ci siamo dovuti reinventare nel quotidiano e ci siamo ritrovati a tu per tu con noi stessi in una modalità inedita. Sono emerse tutte le domande e le questioni che spesso si ignorano travolti dalle mille cose da fare.

Non siamo abituati a prendere le distanze da ciò che c’è fuori per guardarci dentro e siamo stati costretti a farlo: ci siamo ritrovati soli nelle nostre menti e, in questo contesto, abbiamo scoperto quanto possa essere rumoroso e talvolta assordante il silenzio, ma al contempo pieno di vita. Immersi, e forse anche un po’ persi, in una situazione più grande di noi abbiamo trovato nuovi stimoli, ma anche consolidato distrazioni come la televisione, Netflix e i Social che spesso interpretavamo come nuovi ‘luoghi sicuri’, da cui ora, però, dobbiamo imparare a staccarci.

Noi di Bergamo siamo stati colpiti tantissimo, credo che a livello di società dovremmo prendere davvero in mano quel periodo e rileggerlo, rielaborarlo per riconoscerlo come merita nella vita delle persone. La gente, secondo me, potrebbe aver bisogno anche di un sostegno psicologico nel farlo.

Nel mezzo di tutti questi cambiamenti, oggi cosa vuol dire per te vivere una vita degna di essere vissuta?

Secondo me si misura sempre con un aspetto molto personale, sarebbe bello che ciascuno di noi si mantenesse concentrato su ciò che è importante per se stesso, senza sentirsi toccato dal giudizio degli altri – ciascuno ha la propria sensibilità – e lasciando gli altri liberi di poter definire ciò che è importante per loro.

Io sono una persona molto sognatrice, questo aspetto mi rappresenta da sempre, penso di aver sempre ragionato in grande. Credo che mettere il cuore in tutto ciò che si fa ed essere guidati da valori quali la generosità e l’umanità sia oggi ciò che per me significa aspirare ad essere una buona cristiana.

Tra noi giovani la fede credo non sia vista come un momento esclusivamente istituzionale, che trova espressione solo in momenti formali come la messa, ma si declini in una formula più interiore e si esprima in una modalità di vivere che guarda all’agire bene per gli altri e per se stessi in un’ottica di condivisione e compartecipazione.

T antissime volte, confrontandomi con diverse persone sia della mia età che più grandi, mi rendo conto di quanto sia essenziale e imprescindibile non scendere mai a compromessi con i propri desideri. Serve sempre cercare di fare delle scelte che siano in linea con sè, credo veramente in questa cosa.

Se abbiamo dei talenti che sentiamo nostri, dobbiamo cercare di sfruttarli, se abbiamo altre cose che ci fanno stare bene, tenerle vicine, se abbiamo dei sogni, anche quando sono difficili da realizzare, tenerli sempre lì in un cassetto finché non è pronto ad aprirsi e, di tanto in tanto, tenerli spolverati. Ci vuole un pizzico di fiducia. Le situazioni nella vita possono essere tante, dalla pandemia a tante altre, magari ancora più difficili.

Però ecco, secondo me, una vita degna di essere vissuta è quella che, in un qualche modo, quando torni a casa, ti fa sempre dire dentro di te ‘Ecco, quella cosa lì era proprio mia, era proprio sulla mia strada’. Per vivere una vita, appunto, all’altezza dei propri sogni.

(Maria Chiara Sertori)

Non limitarti a leggere

Sui temi della famiglia, del lavoro, della vita religiosa e della partecipazione in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo.

Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni.

Per questo i collaboratori de L’Eco stanno realizzando tante interviste, incontrando testimoni della vita delle nostre comunità. Accompagniamo l’indagine con diversi contributi, ospitando sulle pagine e sul sito de L’Eco pareri, domande e riflessioni. Insieme al contributo di chi, bergamasco, oggi vive e lavora all’estero.

Chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected].

Bergamo senza confini

Ogni settimana uno spazio riservato ai tanti bergamaschi in giro per il mondo, e che si confrontano con valori ed esperienze diverse. Le loro proposte e riflessioni sono un contributo alla nostra indagine.

«Auguri Bergamo! Non perdere la tua meravigliosa bellezza»
Massimo, da Baeza, Andalusia (Spagna)

Dopo una vita da viaggiatore, per me l’immagine di Bergamo è sempre quella del ritorno.

La prima nei ricordi è l’accesso in autostrada, davanti alla Torre su cui spicca il nome della città; era come una frontiera che rappresentava ai miei occhi l’alternarsi delle vacanze con il nuovo inizio della scuola.

Poi, da adolescente degli anni ’70, i viaggi in autostop che mi riportavano al casello con lo zaino sulle spalle, insieme a un altro bagaglio di ricordi.

Arrivò anche la prima partenza in aereo, a quel tempo Orio aveva una sola pista che portava a Roma. Entrando nell’età adulta il tempo cominciò a scorrere veloce, tra un volo e l’altro andavo molto lontano, ma alla fine da Malpensa o Linate dovevo tornare in treno e allora: code di gente che si accalcavano sulle scale d’uscita e, c’era sempre come c’è ancora, chi non sapeva aspettare per accendere una sigaretta, senza curarsi dei respiri altrui. All’esterno il viale della stazione, Città Alta sullo sfondo e dentro una sensazione dolce che parlava di casa.

L’aeroporto cominciava a ingrandirsi e io a vivere in Spagna, molto comodo tornare così, almeno fino a quando non cancellarono il volo da Granada... Orio era vivibile, tranquillo, l’aereo finiva la sua corsa accanto all’uscita e la si raggiungeva direttamente a piedi.
Non so come sia successo, ma l’aeroporto ha cominciato a crescere sotto i miei occhi, ogni volta il cammino diventava più lungo per uscire e io, nonostante sia facile arrivare direttamente a casa, cominciai a pensare che fosse una follia far volare tanti aerei a pochi chilometri da quella che è comunque una piccola città e, anche per questo, fin’ora ha saputo conservare tanta bellezza.

A Porta Nuova sento parlare tre lingue alle mie spalle, anni fa ti giravi al suono di una diversa inflessione dialettale, adesso qui in centro sono più gli stranieri che i bergamaschi, seduti tra bar e ristoranti sui marciapiedi. Mi guardo in giro, cercando di capire perché non protesti nessuno, nonostante l’aria si sia fatta tanto pesante; quando sono da queste parti, basta un giorno per sentirmi bruciare la gola. Guardo in alto e non c’è un minuto senza la traccia di un aereo nel cielo.

Sto diventando vecchio, mi dico, non riconosco più il posto dove sono nato e cammino verso Città Alta, per ritrovare il a respiro. Arrivato in Piazza Vecchia, la trovo nascosta da una specie di giardino.

Ho passato la vita in viaggio e il mio lavoro è stato portare la gente in giro per il mondo, a vedere le cose più belle... Poche possono reggere il confronto con questa Piazza meravigliosa e mi chiedo chi possa aver avuto l’idea di nasconderla d’estate ai suoi cittadini e alle migliaia di turisti che la vorrebbero visitare. Forse sto davvero diventando senile, ancora credo in una bellezza fatta di equilibrio, armonia e che soprattutto sia protetta da una logica autentica di conservazione. Anche per questo ho scritto un libro dal titolo “Storia di un Rompiballe”; è più forte di me, devo dire quello che penso, proprio non riesco a farne a meno…

Auguri Bergamo, che tu possa proteggere la salute dei nostri figli e la tua meravigliosa bellezza, senza doverle sacrificare a qualche sponsorizzazione. Massimo Russo

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