Cosa sono i «death café»? Sant’Alfonso ne parlava già nel ‘700

In Corea del Sud si inscenano funerali simbolici per riflettere sulla vita, ma già Sant’Alfonso nel 1758 scriveva meditazioni per affrontare la morte con consapevolezza e ridare profondità al vivere quotidiano

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È facile trovare in rete la notizia dei «death café» coreani, locali dove, sorseggiando un tè o un caffè, le persone si ritrovano per parlare apertamente della morte. A Torino, un paio di anni fa l’Ordine degli Psicologi del Piemonte ha organizzato alcuni appuntamenti sul tema della morte considerati significativi nella terapia per esplorare il percorso e il significato della vita. La stampa li ha presentati, appunto, come una declinazione italiana dei «death café», iniziative che dal 2010 sono state replicate a Parigi, nel mondo anglosassone e poi a macchia d’olio in tutto il mondo.

L’obiettivo non è certo morbosità, ma creare uno spazio per riflettere sulla morte come parte naturale della vita, provando a superare paure e tabù legati al tema tanto delicato quanto complesso.

Ma non stiamo parlando di una novità: 15 anni fa ne aveva scritto in un reportage dalla Corea del Sud il giornalista John Glionna, del «Los Angeles Times». A Seul, Jung Joon ha fondato la «Coffin Academy», un seminario dove chi vi prende parte (pagando 25 dollari) «esplora» la morte attraverso un’esperienza «terapeutica» intensa. Vi partecipano persone che hanno bisogno di far pace con se stessi e con la vita. Scrivono lettere di addio, provano a sdraiarsi in feretri per dieci minuti e sentono l’eco del proprio funerale. L’obiettivo del terapeuta è proprio quello di aiutare le persone a riflettere sulla vita e sull’importanza del presente, lasciando andare rimpianti e paure.

Non mancano le critiche su simili esperienze, critiche secondo cui queste esperienze stimolino pensieri suicidi, ma Jung sostiene che il seminario offra una nuova prospettiva sulla vita, mostrando le conseguenze della morte. Perché proprio in Corea del Sud? Perché la frenesia di una vita vissuta al massimo delle potenzialità e della performance porta con sé un alto tasso di suicidi, il più alto tra i Paesi sviluppati. I partecipanti agli incontri, che inizialmente si dichiarano per lo più scettici, alla fine provano una sensazione di rinnovamento. Alcuni imprenditori sudcoreani vedono le sessioni come un modo per stimolare la produttività dei propri collaboratori. La compagnia assicurativa Kyobo, ad esempio, ha richiesto che tutti i suoi 4.000 dipendenti partecipassero a finti funerali come quelli offerti da Jung. «È un modo per lasciar andare certe cose - dice Jung, un ex docente - dopo, ti senti rinnovato. Sei pronto a ricominciare la tua vita da capo, questa volta con una lavagna pulita». Come primo atto del seminario, gli iscritti vengono fotografati sotto una corona di fiori, poi si passa nel locale dei feretri. Jung tiene una conferenza di due ore sulla vita e sulla morte. Sottolineando che la fine può arrivare in qualsiasi momento, chiede al gruppo di fare una «lista dei desideri» e dei tratti personali negativi che vorrebbero perdere mentre ne hanno la possibilità. Piano piano, mentre Jung chiede ai partecipanti di parlare delle proprie famiglie, la gravità dell’argomento colpisce. La stanza diventa silenziosa. Diverse persone cercano dei fazzoletti per asciugare le lacrime. Poi è il momento di indossare la tradizionale veste funeraria gialla di canapa della Corea del Sud. Le foto e le epigrafi vengono posizionate sulla testa di ogni feretro. Si entra nella bara e viene posizionato il coperchio simulando il rumore dei chiodi che lo fissano. Qualcuno trema, altri descriveranno una sensazione di sicurezza che paragonerebbero a quella di essere tornati nel grembo materno.

L’apparecchio della buona morte

Diciamocelo ma i coreani non hanno inventato proprio nulla. La nostra tradizione possiede uno strumento potentissimo che ha attraversato i secoli. Si tratta de «L’apparecchio della buona morte», un’opera ascetica e classica di spiritualità cristiana scritta da Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori, dottore della Chiesa, nel 1758. Senza nemmeno la componente scenografica delle «Coffin Academy», il testo di Sant’Alfonso ci riconduce esattamente alla fonte del senso della vita. Nelle meditazioni del santo ci si concentra proprio sulla morte come atto finale di una vita tutta da disegnare. Centrale è il concetto che possiamo provare a tracciare noi stessi la qualità del nostro viaggio. Il libro si articola in 36 considerazioni, per accompagnare la vita presente alla preparazione dell’esito finale.

«Morire bene è un atto che non dovrebbe cogliere nessuno impreparato - scrive Sant’Alfonso -. Considera che sei terra, ed in terra hai da ritornare. Ha da venire un giorno che hai da morire e da trovarti a marcire in una fossa, dove sarai coperto dai vermi. A tutti ha da toccare la stessa sorte, a nobili ed a plebei, a principi ed a vassalli». Il Santo parla anche della morte livellatrice. «Immaginati di veder una persona, da cui poco fa sia spirata l’anima: i capelli scarmigliati ed ancor bagnati dal sudore della morte, gli occhi incavati, le guance smunte e la faccia in color di cenere. L’essere stato quel corpo d’un nobile, o d’un ricco non servirà che per mandare un fetore più intollerabile. Prima volava la fama del suo spirito, della sua garbatezza, delle sue belle maniere e delle sue lepidezze; ma tra poco ch’è morto, se ne perde la memoria».

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