Svizzera, a 40 anni
primario radiologo

C’è chi a Parigi ci va per una vacanza romantica, o semplicemente per assaporare la grandeur che la capitale francese ha saputo conservare fin dai tempi della Rivoluzione. Fabio Finazzi, 41 anni, medico radiologo nato a Bergamo e oggi tra i più giovani primari operanti in Svizzera, a Parigi ci è andato perché aveva voglia di correre. O meglio, dopo i primi anni di gavetta negli ospedali di Piario, Vimercate e Brescia, si è lasciato convincere dalla passione per il suo lavoro (e per lo sci), finendo nel 2012 in corsia a Chamonix, sulle Alpi francesi. È allora che la vita del giovane radiologo bergamasco è letteralmente cambiata, tanto che da otto anni l’Italia per lui si è trasformata nella terra delle vacanze.

«Ho imparato il francese da piccolo – dice – ed era arrivato il momento di fare un’esperienza all’estero. C’era qualcosa che non mi convinceva, avevo l’impressione di essere sfruttato. Spesso in Italia ai medici che sono ancora alle prime armi fanno fare il “lavoro sporco”, le notti, i fine settimana, e la risonanza magnetica è appannaggio di chi ha più di 40 anni. In Francia mi sono ritrovato al fianco di specializzandi che ne sapevano più di me e così ho deciso di recuperare il terreno che avevo perso nei primi anni di lavoro. Da noi certi corsi non esistono, non ci sono soldi per finanziarli, e per ricevere qualche attestato bisogna presenziare a convegni che ci si deve pure pagare».

E così Fabio Finazzi si è ritrovato a fare il pendolare da Chamonix a Parigi, dove (grazie anche alle borse di studio finanziate dall’ospedale) ha conseguito master e diplomi che, di lì a qualche tempo, gli hanno aperto le porte dell’Hôpital du Jura a Delémont, in Svizzera, dove il medico bergamasco è arrivato dopo altre esperienze a Grasse, in Costa Azzurra, e a Sion, sempre in Svizzera.

Primario di un reparto di Radiologia a soli quarant’anni: per Fabio Finazzi la nomina arrivata lo scorso settembre nella Svizzera francese suona piuttosto come una rivincita. «In Italia sarebbe stato quasi impossibile – ammette – Purtroppo da noi manca un po’ di meritocrazia, c’è ancora tanto nepotismo».

La strada che lo ha portato invece a dirigere il suo reparto all’Hôpital du Jura è stata così rapida e lineare che sembra persino incredibile: «L’ospedale cercava un nuovo primario, perché quello che c’era sarebbe andato in pensione a breve – racconta Fabio Finazzi –. Il primo contatto è stato telefonico; dopo un paio di mesi sono stato convocato per un colloquio; alla selezione finale, in videoconferenza, eravamo 5 candidati: siamo passati davanti a una commissione composta da otto primari dell’ospedale, dal direttore generale e da quello delle risorse umane. Abbiamo parlato per circa un’ora e dopo 15 giorni mi hanno chiamato per dirmi che ero stato preso. Per questo, vista la mia personale esperienza, consiglierei di partire per un’avventura all’estero subito dopo la laurea, frequentando una scuola di specializzazione in un Paese dove si può ottenere una migliore formazione professionale di quella che attualmente offre l’Italia».

«In Francia stavo bene – dice – ma con il passare degli anni, le condizioni negli ospedali pubblici si stanno deteriorando: si fa economia, si cerca di risparmiare, si assume sempre meno, e così mi sono convinto a partire per la Svizzera, in un primo momento mantenendo il mio lavoro in Costa Azzurra. Qui, per evitare la fuga verso le strutture private, gli stipendi degli ospedali pubblici sono molto alti: si assume ancora il numero giusto di medici, quindi si lavora meglio e, soprattutto, non si litiga per andare in vacanza». Insomma, un altro vivere: «L’avventura all’estero può anche essere difficile, perché non sempre tutto fila liscio, ma le soddisfazioni professionali e relazionali sono tante. Lavorare in Svizzera, poi, è ancora molto ambito – dice –. Oggi io ricevo due curriculum alla settimana, a Grasse se ne vedeva uno ogni sei mesi».

Condizioni di lavoro (e di vita) ideali, che allontanano una prospettiva di rientro in Italia, almeno a breve. «L’idea di tornare, purtroppo, non c’è – dice Fabio Finazzi –. Nella situazione in cui mi trovo adesso non mi converrebbe. C’è da dire che ho potuto fare queste esperienze perché non ho una famiglia, anche se l’idea di farmene una c’è, eccome. E poi non sono così lontano da Bergamo; si torna in 4 ore di macchina e, a parte quest’anno, rientro abbastanza spesso».

Già, il Covid. Fabio Finazzi è tornato in patria qualche giorno in estate, dopo il primo lockdown, poi è sempre rimasto lontano. «Dispiace non tornare, ma la tecnologia fa sì che ci sentiamo con qualcuno, anche di più di quando ero a Bergamo. Qui la situazione è stata gestita bene – racconta –: di posti letto in rianimazione ce ne sono a sufficienza, anche se la seconda ondata è stata più dura della prima». E poi ci sono gli svizzeri: «Se il governo dice di non uscire, qui non si esce, non servono provvedimenti più restrittivi, e gli ospedali non sono mai stati presi d’assalto». Le sue origini bergamasche lo hanno posto al centro delle attenzioni dei suoi colleghi: «In primavera – ricorda Fabio – in tanti mi chiedevano notizie, sapendo che sono di Bergamo. Per fortuna i miei familiari hanno passato il lockdown in Costa Azzurra, poi si sono trasferiti in montagna. Ma era triste sapere che passavano ambulanze ogni due minuti; faceva un effetto strano, doloroso».

Non dimentica le sue radici, Fabio Finazzi, ma ormai è integrato bene nella sua nuova vita. «Gli svizzeri sembrano un po’ freddi – dice – ma sono soltanto più rispettosi ed educati. Sapere bene la lingua aiuta parecchio. Certo, ci sono abitudini che si fa fatica ad assimilare; la raccolta dei rifiuti, per esempio: in Francia si mischia tutto, qui si differenzia anche il vetro, a seconda del colore delle bottiglie. C’è quello trasparente, quello verde e quello marrone. E ancora, il pet trasparente e quello colorato. C’è da diventare matti e in più, dove si gettano i rifiuti, ci sono telecamere e cartelli che minacciano multe fino a 2.000 franchi, che mettono paura».

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