«Abbiamo vinto, ma non è finita»
Lorini: ora dobbiamo prepararci al futuro

Luca Lorini, direttore dell’Area critica al Papa Giovanni XXIII: «Da Bergamo
una lezione al mondo. Arrivati a oltre 100 posti occupati, ho temuto di non poter più accogliere nessun malato».

«Mi sono preso un giorno di riflessione: l’ho ritenuto un gesto doveroso nei confronti dei morti che purtroppo il Covid ci ha portato via. Dopo tanti anni non sono comunque abituato a vedere un paziente morire: è sempre una sconfitta dolorosa e insanabile, per me. E in questo tsunami questa sofferenza l’ho provata spesso, abbiamo avuto più di 400 morti. Ho voluto dedicare a loro il primo giorno senza Covid in Terapia intensiva. Ora posso dirlo: ce l'abbiamo fatta». Luca Lorini, direttore del Dipartimento di Emergenza urgenza e Area critica dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo non nasconde la commozione, mentre ricorda i 137 giorni terribili che lo hanno separato da questo traguardo, tanto atteso e tanto importante, raggiunto dalla Terapia intensiva dell’ospedale mercoledì.

A fine febbraio l’inizio dei contagi in Bergamasca, il Papa Giovanni subito al centro del dramma mondiale. Quando ha capito che la situazione stava diventando critica?

«Direi quasi immediatamente. L’ondata di contagi è stata fulminea. I cinesi, che sono stati i primi a essere colpiti, ci hanno tenuto nascosti per giorni i dati. Noi, davanti allo tsunami, abbiamo reagito con rapidità e prontezza: la mia condizione era quella di inventare ogni giorno un nuovo assetto nell’organizzazione dei letti di Terapia intensiva. E si finiva la sera sapendo che la mattina dopo il problema si sarebbe riproposto. Arrivare a oltre 100 posti di Terapia intensiva in pochissimi giorni è stata un'impresa titanica».

Cosa significa avere oltre 100 posti di Terapia intensiva tutti occupati?

«Significa realizzare che se si fosse andati avanti così ancora per pochi giorni non avremmo più potuto accogliere nessuno. Una sensazione orribile, di impotenza».

Significava dover scegliere chi curare e chi no?

«In realtà non ci sarebbe stato di che scegliere: se si arrivava in quel momento critico, senza altri posti, non si sarebbe più potuto accogliere nessuno. Quando i letti ci sono, la valutazione sulle cure intensive è su più fattori: la linea operativa è sempre e solo una: individuare se il paziente trarrebbe più beneficio da quello che faremmo rispetto a quello che non faremmo».

Il momento più critico?

«Tutti i giorni, prima di andare in ospedale, alle 7, guardavo i dati degli accessi giornalieri al pronto soccorso di sospetti casi Covid. Il 16 marzo ho letto un numero da fare girare la testa: 90. E quel numero è rimasto costante per giorni: significava che ogni mattina dovevi trovare posti letto, ossigeno, forze umane per curare e seguire questi malati. Tutti i malati. Abbiamo stretto i denti, abbiamo allargato all’inverosimile la Terapia intensiva, anche se era evidente che se si andava avanti così a lungo non avremmo retto. Ma siamo stati bravi, e il merito è di tutte le oltre 400 persone che hanno lavorato all’unisono, medici, infermieri, operatori sanitari, tecnici, direzione dell’ospedale: abbiamo pensato solo a far vivere i malati. Dopo un paio di settimane così i numeri che leggevo al mattino hanno cominciato a calare: quando ci siamo attestati sui 70 ingressi al giorno al pronto soccorso ho capito che eravamo vicini alla svolta».

Ma non siamo ancora a zero ricoverati. Quando ci arriveremo?

«Non faccio l’indovino, ma so che bisogna tenere duro ancora: mantenere il distanziamento sociale, indossare le mascherine, non abbassare la soglia di attenzione. Quando arriveremo a tre zeri, cioè zero morti, zero contagiati e zero ricoverati, per almeno 40 giorni di seguito, allora sì che si dovrà festeggiare. La strada che abbiamo intrapreso è quella giusta, lo dimostra il nostro risultato, con una Terapia intensiva “Covid free” dopo 137 giorni: l’applauso che abbiamo fatto l’altro giorno in reparto riguarda tutti. I medici, gli infermieri, ma anche la comunità intera che ha saputo seguire il mantra “nessuno incontri nessuno”: i sacrifici, per il bene collettivo li hanno fatti tutti, la politica, il mondo economico rinunciando ai guadagni per la salute pubblica, i medici, i cittadini che si sono privati di una vita normale, i parenti dei malati che hanno dovuto sopportare la distanza, e purtroppo a volte anche la morte dei loro cari. Ma non è il momento di una festa collettiva, la guardia deve restare alta».

Scusi, ma lei non è tra i firmatari del documento dei 10 scienziati che afferma che «il virus ha una carica decisamente indebolita?»

«Posso dichiararlo e sottoscriverlo ancora: a Bergamo nuovi malati come nel mese di marzo e aprile non ne vediamo più da parecchie settimane, almeno 4. Questo non significa che il virus non c’è più. Significa che la battaglia per fermarlo non è ancora finita. Per la vittoria dobbiamo ancora aspettare. E restare armati».

C’è stato un periodo in cui mascherine, camici, dispositivi di protezione erano introvabili. Ci si sarebbe potuti attrezzare per tempo?

«Abbiamo avuto momenti difficili, ma in ospedale nessuno è mai stato mandato a combattere senza le armi. Mai. Siamo stati i primi al mondo, dopo la Cina, che non ci aveva preparato, ad affrontare questo tsunami. E quindi ci siamo trovati in alcuni momenti a fronteggiare un nemico con strumenti che stavano scarseggiando, poi con l’embargo alle esportazioni di dispositivi da parte di altri Paesi. Ci sono stati giorni in cui noi avevamo dispositivi solo per altre 48 ore. Ma in questo tutti hanno fatto la loro parte, e il mio bilancio è positivo. L’Italia ha fatto bene, Bergamo ha dato una lezione al mondo. Altri Paesi che guardavano a noi e che avevano avuto più tempo di noi per attrezzarsi non hanno fatto altrettanto. Noi abbiamo dato la migliore risposta possibile vistele condizioni in cui ci trovavamo, viste le scarse informazioni che avevamo in quel momento Ora però non dobbiamo fermarci: dobbiamo progettare il futuro. Dobbiamo preparare un futuro che nessuno scienziato può prevedere, ma essere pronti per un altro ritorno del Covid».

La prima cosa da fare?

«Parto da quello che dissi quando si stava progettando l’ospedale: chiesi che la Terapia intensiva avesse 88 posti letto. Un ospedale deve essere pensato per dare le migliori risposte nel tempo e nelle emergenze, non può essere riprogettato ogni 10 anni. Ci fu chi pensava fossi un visionario. Eppure in periodo Covid siamo arrivati ad aprire e attivare anche i 12 posti di Terapia intensiva che erano attrezzati, pronti, ma non potevano funzionare per la mancanza di personale. Ora siamo a 74 posti di Terapia intensiva e abbiamo anche quei 12 aggiuntivi, che devono restare attivi. E per farlo servono più medici e più infermieri, professionalmente preparati, ricordo che noi abbiamo anche l’Ecmo, la macchina cuore-polmoni. E questo obiettivo va richiesto e ottenuto a gran voce. Abbiamo saputo fare bene la prima volta, ora, per una eventuale seconda volta, non possiamo sbagliare: quindi oltre a potenziare il personale e l’ospedale, serve che tutti continuino a mantenere le distanze e a indossare le mascherine».

Un ricordo di questi 137 giorni.

«Lo sguardo e il grazie di un paziente che mi è venuto a salutare dopo 80 giorni di Terapia intensiva: era appoggiato al girello, ancora debole ma felice. “Vi devo la vita”, ha detto. Se ci ripenso, piango».

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