Addio a Ferlinghetti, padre della Beat Generation
Nel 2002 a Bergamo con Fernanda Pivano

È morto a 101 anni a San Francisco per una malattia polmonare. «Padre» di una generazione di scrittori americani alternativi, ribelli, mistici, era stato a Bergamo nel 2002 grazie a Notti di Luce, con Fernanda Pivano.

La Beat Generation se ne va. Lawrence Ferlinghetti è l’ultimo, a 101 anni, a lasciare questo mondo, di quella strana accolita libertaria ed esistenzialista che tra gli anni ’50 e ’60 aveva legato (anche in amicizia) uomini come Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouac, William Burroughs, Peter Orlowsky.

Ferlinghetti, morto per una malattia polmonare nella sua casa di San Francisco, era un poeta «di un’umanità sconfinata», come ha detto ieri sera Omar Pedrini, commosso: «Per gli artisti della Beat generation fu una sorta di padre, sempre pronto a offrire un pasto caldo, un letto a chi ne aveva bisogno».

Era tornato da adulto a quel lungo cognome italiano, e negli ultimi anni, in cui ha frequentato spesso il nostro Paese - da Bergamo a Brescia, a Torino - gli piaceva farsi chiamare persino «Lorenzo». Suo padre Carlo aveva americanizzato il cognome di famiglia in Ferling, e così il piccolo Lawrence era stato registrato all’anagrafe alla nascita, il 24 marzo 1919. Emigrato da Chiari, Carlo Ferling era morto di infarto prima della nascita del quinto figlio, e la madre era finita in un ospedale psichiatrico, dove rimarrà rinchiusa sei anni.

Eppure era l’innocenza, rimasta intatta ben oltre l’infanzia, la nota più evidente di questo poeta dallo sguardo celeste: «Little Boy», la sua autobiografia, uscita solo l’anno scorso, si concludeva con queste parole, rivolte a se stesso: «Little Boy, cresciuto da romantico contestatore, ha conservato la sua giovanile visione di una vita destinata a durare per sempre, immortale come lo è ogni giovane, convinto che la sua identità speciale non morrà mai». Non voleva presentarlo come un libro di memorie: «Le memorie sono per le signore vittoriane. È semplicemente il tipo di libro che ho scritto per tutta la mia vita».

A 101 anni lui era ancora lì a scrutare «dove Bellezza sta e aspetta/ con gravità/ di spiccare il salto che sfida la morte, come si legge in una delle poesie della sua raccolta più famosa, «A Coney Island of the mind», del 1958. E ancora: «L’universo trattiene il suo respiro/ C’è silenzio nell’aria/ La vita pulsa ovunque/ La cosa chiamata morte non esiste».

La sua celebre libreria e casa editrice, fondata nel 1953 a San Francisco, era il porto, materiale oltre che morale della Beat Generation. L’aveva chiamata «City Lights» (luci della città) come il film di Charlie Chaplin. In un gruppo di artisti dalla vita un po’ persa e spesso disperata, Ferlinghetti era quello che si vestiva bene, portava i capelli corti. Il giorno in cui aveva ascoltato Allen Ginsberg recitare la sua storica «Howl» (Urlo) e gli aveva chiesto il testo per stamparlo - cosa che gli costerà un arresto e processo per pubblicazione oscena nel 1956, da cui fu assolto difendendosi da solo davanti al giudice - era iniziata la storia di un’altra letteratura americana, pienamente post-europea, libera dai canoni formali, assolutamente novecentesca eppure ancora a suo modo grande letteratura, anche se zampillava «sulla strada» (e zone limitrofe) come aveva subito titolato Kerouac.

I loro, poetici e in prosa, erano monologhi quasi senza punteggiatura, parole torrenziali, razionali e mistiche al tempo stesso, nella cui corrente affioravano le parole di Dante o di Flaubert come le onde in mezzo alle quali quelle giovani menti avevano imparato a nuotare. Così come c’era Joyce dietro quel periodare apparentemente sconnesso, visionario, analogico. Immediato: esso metteva su carta la lingua di un tempo nuovo, che è ancora il nostro.

Ferlinghetti era nato a Yonkers, New York, nel 1919, in piena epidemia di Spagnola; la madre, francese, lo affida alle braccia della zia Emilie che lo porta nel suo Paese d’origine; poi torna con lei a New York, finisce in orfanatrofio, viene adottato dalla facoltosa famiglia Bisland presso la quale la zia lavora. Arruolato in Marina appena prima di Pearl Harbor, con la Seconda guerra mondiale finisce tra le rovine di Nagasaki: «L’inferno in Terra che mi rese all’istante pacifista per tutta la vita». E anarchico. Studierà alla Sorbona, prima di tornare in America e stabilirsi a San Francisco, dove oggi esiste già una strada intitolata a suo nome, e il 24 marzo si celebra il «Lawrence Ferlinghetti Day».

A 101 anni compiuti, lo scorso settembre Ferlinghetti aveva tenuto la sua prima mostra come pittore a New York. Anche se ormai era diventato cieco, non aveva voluto arrendersi all’anno del Covid.

Nel settembre del 2002 era stato a Bergamo con Fernanda Pivano, ospite di Notti di Luce, in uno degli incontri culturali più significativi degli ultimi decenni. Già allora, prima dell’avvento dei «social», lui aveva capito che aria tirava: «Ricordo che negli anni ’60 per noi contestatori valeva come slogan il titolo di un libro che diceva: “Sii qui ora”. Mentre oggi il bombardamento televisivo, i fax, i telefoni cellulari sembrano imporci di essere sempre altrove».

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