«C’è una netta discontinuità
nella visione del lavoro»

L’inchiesta sui Neet 8/8 . Il sociologo Dario Nicoli: «Il desiderio di autorealizzazione è una spinta decisiva verso organizzazioni dotate di un’anima. Il paradosso: abbiamo al tempo stesso disoccupati e lavori orfani, senza candidati»

Il fattore culturale è la bussola necessaria per orientarci nel labirinto dei Neet: lo sostiene, con l’esperienza dello studioso di lungo corso, Dario Nicoli, docente di Sociologia economica del lavoro e dell’organizzazione all’Università Cattolica di Brescia.

Professore, cominciamo da questo aspetto.

«Per la prima volta, da quando l’Italia è entrata nella modernità, il lavoro non è più considerato un valore universalmente condiviso, ciò soprattutto a causa del cambiamento culturale nel senso della centratura sull’”io”. Noi oggi viviamo una profonda tensione tra l’etica del dovere e l’etica della soggettività, due aspetti molto differenti, se non alternativi. I vecchi imprenditori hanno a che fare con giovani che sono ad una distanza abissale rispetto al loro modo di pensare e di concepire la vita. Al centro della cultura e del sentire più diffusi fra i giovani ma pure in soggetti più adulti, c’è l’autorealizzazione, una prospettiva di vita che crea una netta discontinuità rispetto alla concezione storica del lavoro, ritenuto un dovere necessario a rendere socialmente riconoscibile la persona. La visione tradizionale incorporava il lavoro entro una macchina sociale a cui ciascuno partecipava svolgendo un ruolo, secondo schemi e riti precostituiti, nella direzione del progresso, un valore tanto certo da non essere discusso. Ma non sono mancati autori che ne hanno visto in anticipo i chiaroscuri: nel primo ’800 l’intellettuale liberale Alexis de Tocqueville aveva intuito che nella società moderna l’attenzione prevalente dell’individuo è centrata su se stesso, sui suoi desideri e progetti, così che l’”io” finisce per diventare una sorta di interferenza tra sé e il mondo: “Raramente nei secoli democratici gli uomini si sacrificano l’uno per l’altro”, mentre “mostrano una generica compassione per ogni essere umano”».

Con quale impatto sul mondo del lavoro?

«Il giovane lavoratore è molto sensibile agli stati d’animo. Quando inizia la prima esperienza di lavoro, se viene sgridato, il giorno dopo lascia e chiede alla mamma di telefonare al suo datore di lavoro. Diverse aziende non fanno più selezione del personale a giugno-luglio, perché i candidati che si presentano hanno già le ferie organizzate. La loro vita non si concentra sul lavoro come fattore decisivo e costitutivo dell’identità, che invece si deve incastrare dentro una programmazione della vita già bella e fatta. Il principio dell’autorealizzazione è così importante che le famiglie che hanno mezzi economici, e non sono poche, consentono al figlio una transizione lunga fra l’uscita dal percorso scolastico e l’ingresso nel mondo del lavoro finché non trova il posto che lo soddisfa. E così il ragazzo è legittimato a pretendere per diversi anni la “paghetta” dai genitori. In questo contesto c’è poi il fattore “over education”, cioè di coloro che hanno accumulato titoli di studio superiori alle richieste del mondo produttivo. Da qui nasce un doppio disallineamento: quello fra le competenze, specie tecnico-operative, e quello fra chi ha aspettative elevate e la qualità “medio bassa” delle offerte d’impiego».

Tuttavia la nuova cultura giovanile ha anche aspetti positivi.

«Indubbiamente la cultura dell’”io” costituisce una provocazione feconda nei confronti del mondo imprenditoriale, e dell’indirizzo dell’economia, perché può aprire ad un’alleanza, ovvero ad un rapporto dotato di reciprocità, tra azienda e dipendente. Non è più solo l’impresa a chiedere al lavoratore le sue risorse per sostenere il progetto produttivo, ma è anche il giovane a domandare le occasioni per realizzare se stesso e lasciare un’impronta positiva nella comunità. Una prospettiva che, se ben indirizzata, può migliorare l’ambiente di lavoro perché pone gli scopi buoni al centro dell’attività economica, indica nel profitto non un fine ma un indice di buona gestione, supera la frattura tra i tempi della vita. In definitiva, il desiderio dell’autorealizzazione costituisce una spinta decisiva verso organizzazioni dotate di un’anima, quelle capaci di proiettarsi nel futuro, come sostiene Frederic Laloux».

Ma intanto c’è il buco nero del Sud.

«Quel che ho detto finora si riferisce prevalentemente al Nord. Quando scendiamo verso il Mezzogiorno entriamo in realtà multiple: economie di scambio, grigie e sommerse, e in contesti familistici dove i rapporti di reciprocità si stabiliscono non in base a regole formali, a diritti e doveri sanciti in base alla legge, ma sulla scorta dell’appartenenza a un determinato gruppo, a un’area di persone che si sostengono a vicenda. Di questo mondo noi ricercatori sappiamo ben poco, perché i dati statistici non rivelano la realtà. Infatti i Neet sono una categoria statistica: coloro che non rientrano tra gli studenti e neppure tra i lavoratori, ma dal versante sociologico non dicono più di tanto: si tratta di una classificazione che copre situazioni diverse e pure errori statistici e di registrazione. E poi, oltre ai ragazzi che non studiano e non lavorano, abbiamo anche chi lavora in forme molto differenti e con titoli elevati. Penso ai giovani posti all’ingresso delle professioni liberali come architetto, avvocato e così via. Queste figure ricevono, quando va bene, il rimborso spese e non hanno l’occasione di arricchirsi professionalmente e quindi di fare carriera oppure di progettare uno studio professionale autonomo. Un paio di mesi con compiti di routine, poi a casa. Su tutto, al Sud, prevale il mercato di scambio. C’è il ragazzino che per non bighellonare consegna il pane per conto dello zio che ha il negozio. Ma, attenzione: è lo zio che gli fa il favore, non viceversa. Questo mercato di scambio, legalmente scorretto, sostiene un’economia che esiste solo in quanto estranea al fisco. In caso contrario tutte queste attività sparirebbero perché non sostenibili, ma funzionano dentro un contesto di comunità».

Come interagisce il Reddito di cittadinanza?

«Finora, in base alle prime ricerche, si può dire che non ha raggiunto l’obiettivo primario, quello di creare occupazione. Aggiungo che il sistema del collocamento influisce, nella migliore delle ipotesi, solo sul 4-5% dei passaggi dal non lavoro al lavoro e in certe zone può raggiungere il 6-7%, mentre in altre la sua efficacia è vicina allo zero. Ci sono buone esperienze – in Lombardia, Veneto, Piemonte, Toscana –, ma in genere la macchina del collocamento pubblico non funziona. Non funziona soprattutto perché in Italia vige la cultura della conoscenza diretta: l’aspirante dipendente diventa affidabile quando è conosciuto come tale, quando c’è qualcuno di credibile che garantisce per lui. Non è la raccomandazione, piuttosto è una forma di garanzia non basata su fattori formali (il titolo di studio) o sulle tecniche dell’orientamento (i bilanci delle competenze), ma sul “metterci la faccia” più o meno con queste parole: “Io, che sono un tuo dipendente, ti garantisco che questo ragazzo è bravo, s’impegna ed è di buona famiglia”. Il titolo di studio è un requisito di base necessario, però non sufficiente per garantire l’affidabilità di chi l’ha conseguito».

Da un lato l’approccio al lavoro è guidato da nuove categorie mentali, dall’altro il lavoro in sé sta subendo trasformazioni radicali.

«Dobbiamo capire che siamo entrati in una società complessa, dove abbiamo contemporaneamente disoccupati e lavori “orfani”, cioè richieste di occupazione da parte delle imprese senza candidati che desiderano svolgerle. Sfioriamo il paradosso: ci sono studi secondo i quali da qui al 2028-2030 mancherà un milione e 200 mila candidati al lavoro. Ma contemporaneamente non riusciamo ad assorbire più di 2 milioni di disoccupati. Ci troviamo nell’area di mischia, dove convivono a stretto contatto situazioni di lavoro con culture completamente diverse tra loro. Il vecchio impiego di fabbrica, quello fordista, è cambiato nettamente. Le aziende 4.0 sono il regno dei supertecnici, dove il rapporto fra laureati e non è 50-50. Nell’immaginario collettivo la fabbrica, invece, è ancora quella dei fumi, delle ciminiere, della fatica e dei turni. Non è più così. Poi, se usciamo dal ciclo produttivo storico degli stabilimenti, incontriamo l’ambito socio-assistenziale legato all’invecchiamento della popolazione e ai progressi della medicina. Entriamo così in un ambiente duale: povero economicamente, ma in cui l’etica poggia sul valore della cura. Ecco, in questi contesti troviamo quote di sottoproletariato: badanti, persone addette ai servizi di pulizia, eccetera. Pensiamo poi ai livelli di punta dell’agricoltura e dell’agroindustriale, al Made in Italy, che però convivono con piccole realtà come il recupero delle cascine di montagna, lavori sostenuti da forti ideali, ma che non forniscono reddito perché in sostanza sono forme di autosussistenza».

C’è anche un problema di formazione.

«Se vogliamo leggere correttamente il rapporto fra giovani e lavoro, la vera questione che si pone riguarda la complessità del prendere una decisione da parte di tutti i soggetti coinvolti: i ragazzi, i genitori, i professori. È veramente molto, molto difficile che uno riesca a trovare un posto che gli corrisponda perfettamente su misura. Perché? Perché - come dire? - troppe opportunità generano maggiore confusione. Vanno considerate alcune variabili aggiuntive, per esempio l’idea che persiste nella mentalità degli adulti, specie dei docenti, e cioè i vecchi stereotipi che rimandano alla fabbrica come a un qualcosa di fisso e immutabile. Sarebbe invece importante puntare decisamente sulle qualità che sono richieste per il lavoro, piuttosto che sulle figure specifiche che un soggetto vuole ricoprire. È vero che le grandi culture professionali rimangono, tuttavia mutano continuamente le condizioni in cui avviene l’esercizio del lavoro. Intendo dire che, per aiutare i giovani a pendere una decisione consapevole e fondata circa il proprio futuro lavorativo, non bisogna concentrarsi sulle specifiche figure professionali, che mutano in continuazione, ma bisognerebbe insistere soprattutto sul contributo che le diverse attività di lavoro danno al bene comune. A me sembra che sia questo il motivo di fondo che pone in una relazione vitale le persone e l’attività economica».

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