Da Piazza Vecchia a Sidney in webcam
Nel vuoto, l’unico viaggio possibile

Giro del mondo con gli occhi delle webcam: il virus ha messo tutti sullo stesso piano. Luoghi antichi e super moderni: non c’è differenza. Tranne che per un pescatore di Roatan.

Il pescatore di Roatan passa sotto la webcam e sembra l’unico abitante del pianeta a non pensare, almeno con un briciolino d’ansia, al coronavirus. Lui, lì su quel fazzoletto di terra dell’Honduras appoggiato nel Mar dei Caraibi, tutto casette e barchette che rischiano di volar via a ogni decollo di aerei dalla piccola pista, lui forse del virus nemmeno lo sa. O almeno, simula bene. Passa lì sotto ciabattando al tipico ritmo di camminata del Caribe. Stress, figurarsi. Dispositivi di protezione, solo dal sole: un cappellino che visto da qui pare unto e bisunto.

L’umarel in salsa honduregna si ferma a leggere un volantino affisso al palo e l’occhio indiscreto della webcam svela la gigantesca aragosta che sbuca – s’intuisce, porella, ancora viva – dalla busta di plastica che porta con sé. Facilmente in tempi normali avrebbe allestito un barbecue tremolante lungo la strada principale del paesello, arrostendo l’aragosta per offrirla ai turisti in cambio di pochi dollari, all’ora dell’aperitivo. Adorabile usanza di quelle isole, da Caye Caulker, Belize, in giù: nei cartocci, al posto delle caldarroste, crostacei appena prelevati dal reef (nota per gli animalisti: diamo per lette tutte le obiezioni del caso. L’aragosta pescata fa tenerezza, e dispiace. Ma grigliata lì per lì è roba da astenersi perditempo).

L’occhio è caduto su Roatan, in un rapido giro del mondo via webcam, proprio alla ricerca di uno scampolo, ancorché piccolo, di normalità. Perché oggi uno sguardo sul mondo dall’unico oblò concesso, quello dello schermo del computer, ottiene sempre lo stesso risultato: il vuoto.Là dove si parlavano le lingue più diverse, oggi c’è la medesima: il silenzio. Là dove nemmeno uno spillo sarebbe riuscito a cascare a terra, oggi la natura si riprende il suo spazio. L’erba ricresce in Piazza Vecchia. Famigliole di papere si pucciano nella Barcaccia romana ai piedi di Trinità dei Monti (meglio qualche loro bisognino, in fondo, degli ultrà olandesi che la devastarono anni fa). Per non dire dei topi, che certamente stanno ballando più o meno ovunque.

Strade e luoghi che nei decenni sono diventati per mille ragioni i crocevia del mondo, nell’immaginario dei viaggiatori e soprattutto nella realtà di ogni giorno, oggi sono spenti. Cattedrali nei loro deserti, così diverse ma così simbolicamente uguali, cariche di ricordi per chi è passato di lì, cariche di attesa per capire che ne sarà di loro.

Tornerà, la Fifth di New York, a essere tutto e il suo contrario, luogo in cui puoi comprare qualsiasi cosa, basta che sia carissima perché l’hai presa proprio lì?

Tornerà la Strip di Las Vegas a essere quel formicaio di condannati al divertimento «che però una volta nella vita ci devi andare»? Tornerà, il lungomare di Copacabana, a essere la passeggiata più variopinta del mondo, dove se ti va bene puoi lustrarti gli occhi con i palleggi di Romario sulla spiaggia (sì, ok: non solo con quelli), e se ti va male la ripulita te la dà un ragazzino più veloce della luce a caccia di turisti un po’ babbei?

Domande che si rincorrono, mentre il dito scorre i luoghi più disparati del mondo a caccia di qualcuno che magari se la sta vivendo ancora con un minimo di normalità.

Ma niente: il mondo ha la saracinesca abbassata. Quasi commuove la Plaza Major di Cuzco, perla del Perù. Il paese andino ha avuto un impatto relativamente morbido con il virus: 21mila contagi e 634 vittime ufficiali, secondo il report della Johns Hopkins.

Ma si è chiuso a riccio, dentro le sue case fredde, abbarbicato alle sue quote da fiatone. Chissà come se la passa la signora Bernardina di Taquile, l’isola peruviana del Lago Titicaca nelle cui case è possibile fermarsi a dormire. Lei, che non era mai stata nemmeno a Puno, che per Taquile sarebbe più o meno come Paratico per Montisola, chissà se sa del virus, chissà se questo infame s’è arrampicato fin lassù, magari nascosto negli zaini degli ultimi turisti rimasti in giro, semi intrappolati dalle saracinesche che il mondo via via si blindava, mettendo a terra gli aeroplani.

E vuoto e silenzio mettono sullo stesso piano le realtà più diverse. La stessa sensazione di Cuzco, antica e pericolante, la provoca l’eccesso opposto. Diciottomila e rotti chilometri più in là, c’è Marina Bay, il cuore di Singapore. Una colossale colata di cemento armato poggiata sul mare, eppure di una bellezza assoluta.

Architetture impossibili, accostate le une alle altre in armonia. Squadrature brutali e tetti tondi, giri un angolo e puoi essere a Tokyo, ne giri un altro e ti pare una specie di San Francisco con gli occhi a mandorla e i profumi di spezie. Anche lì, in quella punta d’Asia che è un lembo di terra ma ha tutta una sua fisionomia «autonoma» dal resto del gigante d’Oriente, oggi è silenzio, vuoto e anzi: pensavano di esserne usciti o quasi, e invece sono di nuovo dentro fino al collo. Come Hong Kong.

Oggi è ovunque lockdown, che si viva in una capanna di lamiera o in un loft da miliardari in dollari. Questa è la password che accomuna il villaggio più povero e la megalopoli più ricca. Oggi è chiuso il baracchino che fuori Kampala ti vende un caschetto di bananine e ha in offerta polli ancora vivi, così come è sprangato l’ingresso di Tiffany, passaggio obbligato (guardare, ma non toccare) di chiunque butti lì due passi sulla mitologica quinta strada di New York. E così davanti all’Opera House di Sydney, Australia, è rimasta solo la sua ombra. Via i turisti, via gli australiani che adorano passar di lì per godersi tutta la bellezza della loro baia, e dei vecchi ferries gialloverdi che piano piano vanno verso Bondi, o Manly, o chissà dove.

E da noi muta Venezia (respira, Venezia, finché puoi), muta Roma, muta piazza del Duomo di Milano. Muti, in Europa, i nostri simboli più cari. La spianata del Trocadero a Parigi, dove tutti prima o poi corriamo per una foto. Muta Londra, che prima ha sottovalutato, e poi sappiamo com’è andata.

Muta persino Ushuaia, la Fin del Mundo, ultimo metro della Terra del Fuoco, Patagonia argentina. E muta, per quanto e come può, persino l’India, dove caos e armonia si fondono in un unico, meraviglioso, inimitabile disordine perenne. Ci stanno provando, anche a colpi di sonore bastonate.

Gli unici a non stupirsi di nulla sono i giapponesi. Per loro, tutto questo è quasi normale. Non che siano silenziosi. Ma ordinati e perennemente sanificati, sì. Se disegneranno sulle metropolitane il posto da occupare, per loro cambierà quasi niente. Però, ora tace anche Shinjuku, quella fetta della capitale del Giappone che ha un curriculum di una sola riga: «Il quartiere che non dorme mai». Lì tutto è sempre aperto, 24 su 24, 7 su 7, 12 su 12. Ora, tutto tace. Così come tutto tace all’estremo opposto del Paese, nell’antica Kyoto, nei viottoli dove non è raro incrociare, e disperatamente inseguire a caccia di una foto, qualche geisha.

Guardi la desolazione di Kyoto e ti torna alla mente quel ristorantino minuscolo, là girato un angolo, dove una giapponesina tanto gentile cucinava divinamente. Niente sushi, sashimi e introgoli con le alghe: lei, quando di quel cibo non ne potevi proprio più, sfoderava una carbonara clamorosa, manco fossi in una trattoria con vista Tevere. Chissà come sta, adesso, quella ragazza.

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