Genitori malati di Covid, bimbo solo
Ma trova la famiglia dal cuore grande

Il racconto del piccolo spaesato che ha incontrato un nucleo familiare sempre aperto all’affido.

«La migliore accoglienza? Il sorriso - scrive Madre Teresa di Calcutta -. La cosa più bella del mondo? L’amore». Non è facile sperimentare questi principi in tempo di pandemia: la paura del contagio può rendere le persone diffidenti, spingerle a costruire muri, più che ad aprire le porte del cuore. A Bergamo, però, epicentro italiano della diffusione del coronavirus, possiamo raccontare una storia diversa, in cui davvero le parole di Papa Francesco «siamo tutti sulla stessa barca» si sono tradotte in mille azioni di solidarietà, spesso realizzate senza grandi clamori. Com’è accaduto nella famiglia di Ferruccio, medico infettivologo in un ospedale della provincia, che vive con sua moglie Maria, maestra in una scuola dell’infanzia e con i figli Tommaso, Sofia, Leonardo e Jacopo in un paese dell’hinterland. Abbiamo cambiato tutti i nomi dei protagonisti di questa storia per tutelare la riservatezza dei minori coinvolti.

Capacità di condivisione

Una sera, a metà marzo, nei giorni in cui il numero dei contagiati faceva accapponare la pelle e i morti uscivano dalla nostra città a bordo dei carri dell’esercito, a casa di Ferruccio è arrivata la telefonata di un’operatrice della Caritas diocesana: cercava un luogo adatto a ospitare temporaneamente un bambino di 6 anni, Giorgio, che aveva entrambi i genitori malati di covid-19, uno dei quali già ricoverato in ospedale: «Avevano molta paura per lui» sottolinea Maria.

«Ci siamo consultati con i nostri figli - racconta Ferruccio - poi abbiamo deciso di accettare. Ci siamo sempre resi conto che la forza della nostra famiglia sta nella capacità di condividere e di affrontare le difficoltà tutti insieme, e volevamo donare questa possibilità anche a Giorgio, messo così duramente alla prova in una situazione difficile per tutti».

Questa famiglia non si è «improvvisata» in questo compito, perché ha già una lunga esperienza di affidi con il Consorzio Famiglie per l’accoglienza di Bergamo (www.consorziofa.it), iniziata dopo aver trascorso - tutti insieme - un periodo in Africa, dove Ferruccio ha partecipato a uno speciale programma di scambio promosso dal Sistema sanitario nazionale.

Il periodo in Benin

«Siamo rimasti là per due anni e mezzo - racconta Maria - Jacopo, che ha 12 anni e frequenta la prima media, è nato in Africa. Eravamo nel Benin, sulla costa occidentale, affacciato sul Golfo di Guinea. Abitavamo a Tanguietà, nella parte settentrionale del Paese. Papà Ferruccio lavorava all’Hopital St Jean De Dieu, svolgendo soprattutto attività di formazione nei consultori sul territorio». Tommaso e Sofia, i figli più grandi, hanno frequentato lì l’ultimo anno di asilo e le prime due classi delle elementari. «Abbiamo provato una sensazione strana quando siamo rientrati - spiega Tommaso, che ora ha 20 anni e studia Lettere a Milano -, perché era tutto molto diverso. In Africa eravamo gli unici studenti stranieri della nostra classe. Ci eravamo abituati a parlare in francese, l’italiano solo in famiglia, usavamo lavagnette e gessetti e non ci assegnavano compiti a casa. Al ritorno in Italia il ritmo delle giornate era completamente diverso, c’erano libri, quaderni e cartelle, che prima non avevamo mai usato. Abbiamo avuto un’esperienza simile a quella dei ragazzini figli di immigrati in Italia, e questo ci ha aiutato ad ampliare i nostri orizzonti e a guardare la realtà in modo diverso. Quello che abbiamo imparato è rimasto come patrimonio della nostra famiglia; una volta tornati ci sembrava giusto portare a frutto questa esperienza».

Medico formatore

Quando Jacopo ha iniziato a frequentare la scuola dell’infanzia in Italia tornava a casa e diceva: «Ci sono cinque bambini africani nella mia classe», ma includeva anche se stesso. Sono tornati ad agosto del 2008: «Era già stabilito che fosse un’esperienza limitata nel tempo - racconta Ferruccio - ma abbiamo deciso i tempi strada facendo, mentre eravamo lì. Ho partecipato a un progetto promosso in cooperazione con il Ministero italiano della Salute e una Zona sanitaria africana, che comprendeva un ospedale e alcuni ambulatori periferici. Ero lì come medico formatore: ho lavorato per le campagne dedicate alla malaria, alle vaccinazioni, alla mortalità infantile. Ci siamo impegnati sia nella pratica clinica sia nell’organizzazione del sistema sanitario, dall’ospedale ai dispensari».

Il desiderio di fare e dare spazio

Una volta tornati Ferruccio, Maria e i loro figli si sono accorti che era impossibile ricominciare la routine quotidiana senza tenere conto di ciò che avevano sperimentato: «Abbiamo pensato - racconta Ferruccio - che era ora di fare qualcosa di più per aiutare gli altri. Così è nata l’idea di legarci al Consorzio Famiglie per l’accoglienza e di iniziare un percorso di formazione e di idoneità per diventare famiglia affidataria». Da quel momento in poi hanno aperto la porta a molti bambini in situazioni difficili: «Col tempo - aggiunge Maria - abbiamo imparato insieme a diventare una famiglia accogliente: fare spazio agli altri, ascoltare, mettersi accanto e percorrere un pezzo di strada insieme».

Non è stato un percorso a senso unico, ogni accoglienza ha permesso alla famiglia di Ferruccio di fare nuove scoperte su di sé e sul mondo. Come scrive Erri De Luca «per accogliere una rivelazione, grande o piccola che sia, basta a volte essere docili, termine che indicava in origine la disponibilità a farsi istruire».

«Così anch’io - sorride Jacopo, il più piccolo dei fratelli - ho avuto la possibilità di trasformarmi in un fratello maggiore e di avere accanto altri bambini con cui giocare».

La condivisione in una famiglia come questa è naturale come respirare: mettere in comune tempo, spazi, pensieri e giochi è una pratica quotidiana.

«Abbiamo sempre avuto un “termometro” speciale per valutare al volo la situazione dei bambini che entrano nella nostra casa in affido - chiarisce Tommaso -, ed è il comportamento a tavola. Quanto e che cosa mangiano, quanto tempo riescono a stare seduti. Può sembrare banale, ma il momento dei pasti rivela molto sulle nostre abitudini, ma anche su disagi e paure. Tra i segnali più semplici osserviamo per esempio se un bambino aspetta che tutti siano serviti per iniziare a mangiare, se accetta le verdure oppure no, se termina tutto quello che c’è nel piatto e simili. Con Giorgio è andata subito bene, mangiava sempre tutto. Quando è arrivato ci trovavamo tutti a casa e abbiamo cucinato tanti piatti diversi: pizze, torte, biscotti, gelato, coinvolgendo anche lui che è sempre stato molto contento delle proposte e disponibile a partecipare anche se magari si trattava di attività diverse rispetto a quelle che svolgeva a casa». Tra i momenti più difficili della giornata c’era quello delle lezioni quotidiane con la «didattica a distanza», pesanti per un bambino della prima classe della scuola primaria: «Si svolgevano di pomeriggio - racconta Maria - e naturalmente gli stavamo vicino per aiutarlo». Tutto però diventava più facile pensando che alla fine ci sarebbe stata la partita di calcio in famiglia, possibile anche durante la quarantena, perché i ragazzi avevano a disposizione un cortile per divertirsi all’aperto.

«Giorgio è rimasto con noi per un mese e mezzo. I suoi genitori sono sempre stati molto gentili e presenti attraverso le videochiamate, si sono fidati di noi. All’inizio era smarrito e spaventato dall’idea di entrare in una nuova famiglia, ha dovuto cambiare ambiente e abitudini, ma poi ha messo in gioco le sue risorse migliori». Figlio unico, Giorgio era abituato a giocare da solo: «Nell’ultimo periodo, quando i genitori si erano resi conto di essere entrambi malati - chiarisce Ferruccio - aveva dovuto sperimentare un isolamento ancora più profondo: ognuno era di fatto chiuso nella sua stanza per paura di trasmettere la malattia. La nostra è una famiglia vivace e lui si è ambientato benissimo, anche se aveva sempre un po’ di nostalgia».

Il legame di amicizia

Nelle settimane trascorse insieme è nato un legame di amicizia e affetto: «Si è affezionato a noi - dice Maria -, alla fine ci ha detto che sarebbe rimasto volentieri ancora un po’, e continua ancora a telefonarci e a tenersi ogni tanto in contatto».

I passatempi durante il lockdown per necessità erano molto semplici, dai giochi da tavolo alla briscola chiamata: «Non è un problema allargare il nostro cerchio - afferma Tommaso -. Non sono mai stati solo i nostri genitori ad accogliere, ma tutti noi. È un’esperienza impegnativa ma bella e fruttuosa. Essere in tanti e aiutarci a vicenda è sempre stata la nostra forza. Con i bambini che sono arrivati ci siamo sempre comportati da fratelli e sorelle, anche se a tempo». Anche chi è in affido viene «contagiato» dallo stile allegro di questa famiglia, integrandosi come se ne fosse parte: «Spesso chi ci incontra senza sapere nulla - osserva Maria - individua al volo delle somiglianze con gli altri nostri figli, e forse un fondo di verità c’è».

Ferruccio, infettivologo, ha vissuto in modo intenso la pandemia: «È una malattia che tutti noi conosciamo solo da pochi mesi e anche come medico all’inizio mi sono sentito disorientato. L’impatto è stato forte, la situazione era gravissima, i malati arrivavano tutti insieme e alcuni erano in condizioni così disperate che dopo poche ore erano già morti». Nonostante questo, e nonostante abbia sperimentato egli stesso il covid-19, Ferruccio è riuscito a mantenere un clima sereno nella sua famiglia: «La fatica più grande - raccontano i suoi figli - è stata soprattutto quella di non poter svolgere le nostre attività abituali». Anche l’arrivo di Giorgio ha contribuito a rallegrare l’atmosfera: tutti si sono assunti la responsabilità di trasformare un momento di crisi in un’opportunità. «Non ci era mai successo di restare tutti insieme a casa - conclude Maria -. Anche per noi è stato un tempo straordinario. Abbiamo riordinato la casa, catalogato tutti i nostri libri. La vita ci prepara sempre nuove sfide».

© RIPRODUZIONE RISERVATA