Il cuore si ferma, ma il defibrillatore sotto pelle lo salva. E diventa papà

La storia di Francesco Caglioni: quel giorno in cui la «sindrome di Brugada» lo colpì a pochi mesi dal matrimonio. «Sono svenuto, poi la sensazione di un pugno dentro e mi sono risvegliato: ero vivo». Il «paracadute» è grande come una carta di credito ed è collegato al cuore dove c’è un elettrodo.

C’è tutta la vita nel battito ritmico del cuore. Il suono regolare della quiete, quello affrettato dell’emozione, e poi - a volte - c’è un momento in cui «salta tutto», e non è per un «colpo di fulmine», ma per un altro genere di fenomeno «elettrico». È capitato a Francesco Caglioni una sera qualunque, mentre andava a ritirare la pizza da asporto. C’erano tutti a casa sua quella sera d’inverno, nel gennaio del 2014: i genitori, la futura moglie, i suoceri, e mancavano pochi mesi alle sue nozze. Quella sera - ricorda - era in auto, fermo al semaforo, quando si è accorto che qualcosa non andava. «Non stavo bene. Ho fatto appena in tempo a portare l’auto a bordo strada per fermarmi, poi ho perso i sensi».

Il progetto «Stesso battito»

Si è risvegliato poco dopo di colpo «con un flash» grazie a una scarica del suo «paracadute»: un defibrillatore che gli è stato impiantato all’Humanitas Gavazzeni di Bergamo undici anni prima, quando ne aveva 22, dopo che gli era stata diagnosticata la Sindrome di Brugada, e che da allora lo accompagna sempre. Adesso racconta la sua storia per il progetto «Stesso battito», una raccolta in formato podcast delle testimonianze di pazienti di Humanitas Gavazzeni che rievocano il proprio percorso dai primi sintomi alla guarigione, con l’obiettivo di ricordare l’importanza «di non lasciare inascoltato il proprio cuore». Compongono il progetto dieci intensi racconti di cura, che hanno l’obiettivo, come spiega la presentazione, di «sensibilizzare alla conoscenza e prevenzione delle malattie cardiovascolari, incentivando all’ascolto del cuore in una modalità inedita». Le voci di Francesco, dei suoi medici e degli altri pazienti che partecipano al progetto «Stesso Battito» si possono ascoltare su www.humanitasgavazzeni.it e sul profilo Spotify.

Francesco ha accettato volentieri di offrire il proprio contributo: «Ho pensato di poter offrire un aiuto a chi si sente disorientato e smarrito di fronte a una diagnosi che non capisce, come è capitato a me all’inizio». La sua esperienza è preziosa per tutti, per comprendere quanto sia importante la prevenzione per avere un cuore in buona salute.

La sindrome di Brugada è una malattia di origine genetica che predispone al rischio di aritmie ventricolari maligne, fino alla morte improvvisa. Nel caso di Francesco la diagnosi è arrivata per una coincidenza fortunata: «Mio padre - spiega - si trovava all’Humanitas Gavazzeni per curare un dolore al braccio, stava valutando la possibilità di sottoporsi a un intervento per “il gomito del tennista”. Dall’elettrocardiogramma, però, è emersa un’anomalia che nessuno si aspettava. I medici hanno approfondito l’indagine ed è risultato che era affetto da questa “sindrome di Brugada” che non avevo mai sentito nominare. Poi ci hanno chiarito che si trattava di una malattia ereditaria, che può causare la morte se non viene tenuta sotto controllo».

Francesco ha cercato informazioni su internet: «Quando le ho lette, però, mi sono un po’ spaventato. Le analisi intanto proseguivano, gli specialisti hanno spiegato a mio padre che la sua condizione non si poteva curare, per controllarla era necessario impiantare un defibrillatore e così è stato. Nel frattempo mio fratello Fabio e io siamo stati sottoposti ad analoghi accertamenti. Sapevamo che c’era una probabilità del 50% di aver ereditato la sindrome da nostro padre, e in questo caso la statistica è stata pienamente rispettata, perché mio fratello è risultato negativo ed è tornato a casa, io purtroppo no». Era il 2003 e Francesco era giovane e in buona salute: «Ho accolto la notizia - dice - con rabbia e irritazione, perché davvero non me l’aspettavo. In quel periodo ero impegnato nel servizio civile con la Caritas di Bergamo in una comunità che accoglie persone con disabilità a Sarnico. Per un anno avevo condiviso un appartamento e la vita quotidiana con gli altri obiettori, partivo da casa mia, a Scanzorosciate, di lunedì e tornavo il venerdì sera. Questa esperienza mi era piaciuta tantissimo, perciò ero davvero in un bel momento della mia vita. Stare con quei ragazzi mi ha cambiato, mi ha aiutato a crescere, sono nate belle amicizie e ci teniamo tuttora in contatto. Così da quella situazione di serenità e di soddisfazione sono precipitato di colpo nello sconforto più nero».

In 18 anni già cambiato tre volte

L’iter delle analisi è stato analogo a quello del padre: «Hanno misurato la funzionalità elettrica del mio cuore, l’impulso che genera il battito. Anche nel mio caso hanno valutato che era necessario impiantare sottopelle un defibrillatore, un prezioso paracadute. È grande come una carta di credito ed è spesso quasi un centimetro. È collegato al cuore con un catetere che arriva fino al ventricolo e termina con un elettrodo. Dopo l’impianto gli specialisti hanno valutato il corretto funzionamento dell’apparecchio, ci sono volute due settimane prima che potessi tornare a casa».

Non era facile abituarsi all’idea, ma Francesco, superato lo shock, si è adattato rapidamente: «Dal primo momento mi sono affidato ai medici, ero certo che stessero lavorando al meglio per aiutarmi. Ho il defibrillatore da 18 anni e me l’hanno già cambiato tre volte per l’esaurimento della batteria, ma sempre in anestesia locale».

La scoperta della sindrome di Brugada ha innescato molti cambiamenti nella vita di Francesco: «Mi hanno invitato a evitare gli sport di contatto, perché i contrasti fisici possono danneggiare il catetere che collega il defibrillatore al cuore. In realtà prima non conducevo una vita particolarmente attiva, ma dopo questo episodio mi sono sentito incoraggiato a muovermi maggiormente. Così da un evento negativo in realtà è scaturito uno stimolo in più, una spinta a vivere in modo pieno e intenso ogni momento. Mi sono cimentato in esperienze che prima non avevo mai considerato, come lo snowboard e il calcetto, sempre con un molta prudenza».

Dopo il servizio civile Francesco ha iniziato a lavorare a Pedrengo: «Mi occupo di programmazione di macchine, e mi piace molto. Poco dopo l’impianto del defibrillatore ho conosciuto una compagnia di Ambivere. In questo gruppo di amici ho incontrato Vanna, che poi è diventata mia moglie, e da quando ci siamo sposati ci siamo trasferiti qui. Ho preferito parlare subito apertamente della mia sindrome, non mi sono mai sentito a disagio per questo. Ci sono stati, certamente, momenti di tristezza, in cui mi infastidiva particolarmente l’idea di sentirmi “malato” ma ho sempre cercato di reagire, di farmi coraggio, e ci sono riuscito grazie alla vicinanza dei miei familiari, e in particolare di mia moglie».

Come scrive Alphonse De Lamartine «con tutto l’oro del mondo non si può comprare il battito del cuore, né un lampo di tenerezza». L’episodio grave di aritmia che ha colpito Francesco è arrivato in modo del tutto imprevedibile a pochi mesi dal matrimonio: «Ricordo di essere svenuto - racconta -, di aver avvertito una sensazione strana, come un pugno sferrato dall’interno del mio corpo, e di essere tornato in me stesso subito dopo. Quando mi sono risvegliato mi sentivo bene. Sono andato comunque a ritirare le pizze che avevo ordinato e le ho riportate a casa. Solo una volta rientrato ho acquistato piena consapevolezza di quanto accaduto e ho incominciato a tremare. Ne ho parlato con mia moglie, ci siamo messi in macchina e siamo andati al pronto soccorso dell’Humanitas. Secondo lo specialista elettrofisiologo che mi ha visitato, senza l’intervento del dispositivo, con un’aritmia di questo tipo sarei morto. Il mio defibrillatore è rimasto per dieci anni senza fare niente ma quando ce n’è stato bisogno è intervenuto e mi ha salvato».

Le aritmie sono imprevedibili

Durante il ricovero Francesco ha avuto altri episodi di aritmia: «Mi hanno prescritto una terapia con un farmaco antiaritmico che sto prendendo tuttora, prima per tre volte al giorno, ora due. Solo in quel momento ho capito quanto fosse utile quel dispositivo, che a lungo avevo considerato fastidioso e un po’ eccessivo. Per assorbire il colpo e rielaborare tutto ci è voluta qualche settimana. Vanna mi è stata vicina offrendomi un sostegno preziosissimo. Ci siamo buttati nei preparativi del matrimonio e questo ha distolto la nostra attenzione da ciò che era accaduto. Ci sono ancora giornate in cui mi sento un po’ impaziente, in cui riemergono disagio e paura, ma riesco a tenerle a bada, ho trovato una strategia personale per disinnescare le preoccupazioni. Mi hanno aiutato i medici, spiegandomi che non c’è la possibilità di prevenire le aritmie».

La teleassistenza

Nel luglio 2017 Vanna e Francesco hanno avuto la prima figlia, Irene, a giugno di quest’anno è nata la seconda, Lucia. «Ho una vita piena e felice. Devo sottopormi a controlli una volta all’anno. Le mie bambine sono sane, e quando sarà opportuno, per sicurezza, sottoporremo anche loro a controlli approfonditi. Tengo sul comodino un dispositivo di “teleassistenza” che è costantemente collegato con Humanitas Gavazzeni e trasmette i dati alla mia elettrofisiologa di fiducia, Elena Lucca. Questo permette di prendere provvedimenti tempestivi nel caso in cui si verifichino anomalie».

Nel caso di suo padre il defibrillatore non è mai entrato in azione, ma entrambi hanno imparato dall’esperienza quanto sia necessaria la prevenzione: «Proprio per questo mi è sembrato importante partecipare al progetto di Humanitas “Stesso battito” per poter essere utile ad altri che si trovano nelle condizioni in cui mi trovavo vent’anni fa, quando ho scoperto di essere malato, senza informazioni e punti di riferimento, timoroso di che cosa potesse riservarmi il futuro. La scienza fa progressi continui, vale la pena di fidarsi e di prendersi buona cura del proprio cuore. La nostra storia dimostra che un controllo in più può davvero salvare la vita».

© RIPRODUZIONE RISERVATA