Il ministro Cartabia: «Pratichiamo la giustizia come faceva don Resmini»

Il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, oggi a Bergamo per intitolare il carcere al cappellano morto di Covid. L’intervento integrale su «L’Eco di Bergamo».

Il ministro della Giustizia Marta Cartabia nella mattinata di lunedì 19 aprile sarà a Bergamo per l’intitolazione della casa circondariale di via Gleno a don Fausto Resmini, il cappellano degli ultimi portato via dal Covid il 23 marzo 2020. La Guardasigilli prima farà visita anche al Patronato di Sorisole, «cuore» dell’opera del sacerdote di Lurano. «Don Fausto non cercava riconoscimenti formali ma praticava la giustizia», scrive la ministra nell’intervento che terrà stamattina e che ha anticipato a L’Eco di Bergamo, ricordando il suo incontro col sacerdote. Per la direttrice dell’istituto penitenziario Teresa Mazzotta «il carcere cammina col territorio. Come ci ha insegnato don Fausto, dentro e fuori collaborano».

Ecco il testo integrale dell’intervento che il ministro della Giustizia Marta Cartabia pronuncerà questa mattina a Bergamo.

«A poco più di un anno dalla morte, ci raduniamo oggi per intitolare ufficialmente il carcere di Bergamo a don Fausto Resmini, raccogliendo volentieri una iniziativa voluta dalla direttrice Teresa Mazzotta, che saluto e ringrazio sentitamente per aver rivolto al ministero questa richiesta. Nella lingua italiana «intitolare» significa dare un nome nuovo, dare un nome proprio, a qualcosa che porta un nome generico. Dare il nome: un gesto tutt’altro che formale. Il nome esprime una identità. Intitolare il carcere di Bergamo con il nome di don Fausto Resmini significa fare propria la sua identità, farne tesoro, custodirla e mantenerla viva.

Pensando al momento che stiamo vivendo oggi, mi è tornato alla mente un momento molto evocativo, consegnatoci da uno dei testi fondativi della nostra civiltà, che narra della trasformazione del nome della giustizia: dalle Erinni alle Eumenidi. Nell’Orestea di Eschilo, la giustizia vendicativa delle Erinni diventa la giustizia benefica delle Eumenidi ad opera della dea Atena che interviene a interrompere il corso ineluttabile della catena di male e di sangue che sta distruggendo la città di Argo. Atena pone fine a una giustizia che risponde al male con il male, istituisce il tribunale e celebra il processo all’imputato Oreste. Ma soprattutto, al termine del processo cambia il nome alle Erinni, che troveranno un loro posto nella città, ma solo dopo essere state trasformate in Eumenidi, dee benevole, benefattrici e beneficate. In greco il prefisso «eu» indica qualcosa di buono, di benefico, di positivo. Una giustizia non più distruttiva ma generativa. C’è un passaggio degno di nota nel serrato dialogo, senza sconti, che la dea Atena conduce con le Erinni per persuaderle ad assumere la nuova natura di Eumenidi: «Tu preferisci aver nome di persona giusta anziché praticare giustizia».

Praticare la giustizia. Don Fausto non cercava riconoscimenti formali ma praticava la giustizia. Qualcuno di voi ha scritto di recente: intitolare il carcere a don Fausto è un modo per incontrarlo ancora ogni giorno. Chi era l’uomo che incontravate ogni giorno e che ha lasciato un segno così profondo nel carcere di Bergamo, così da divenire il suo segno distintivo? La direttrice ci ha detto molto di lui, della sua storia. Ciascuno di coloro che ha incrociato il suo cammino, dentro e fuori il carcere, ha un suo ricordo particolare, un episodio che fissa in lui la sua memoria. A leggere le molte testimonianze di chi ha voluto rendere omaggio a don Fausto dopo la sua morte si coglie proprio questo: un uomo che praticava la giustizia, un uomo teso a rigenerare, senza facili assoluzioni, il percorso di vita di tutti. Con una proposta esigente e nient’affatto «buonista», come si è tentati di pensare di fronte a testimoni come lui. Ripeteva spesso che per il recupero di chi deve fare i conti con il male commesso occorre un cammino, il travaglio di un cammino spesso lungo e sempre segnato da tre momenti: il riconoscimento dell’errore, la richiesta di perdono e la riconciliazione con le vittime.

Anche io ho avuto il privilegio di incontrare personalmente don Fausto la sera del 25 ottobre 2019 - allora ero vicepresidente della Corte costituzionale - nell’ambito di una encomiabile iniziativa sulla giustizia riparativa, organizzata in collaborazione con la Caritas. La giustizia riparativa: un aspetto della nostra giustizia ancora tutto da sviluppare e che, come ho avuto modo di dire anche in Parlamento, mi sta molto a cuore e desidero sostenere attraverso l’azione di governo, per quanto sarà nelle mie possibilità. Ho incontrato lui, e ho incontrato i suoi ragazzi della Fondazione di Sorisole: con loro ci eravamo intrattenuti - troppo brevemente, dico ora con rammarico - davanti a un rinfresco frutto anche del loro lavoro e del loro impegno. Proprio a partire da quella breve, ma intensissima serata, in questa occasione vorrei soffermarmi su due dei tanti lasciti di don Fausto che ritengo debbano diventare patrimonio di tutti: qui a Bergamo e nel resto del Paese. Potremmo individuarli così. Il primo: un impegno oltre le mura del carcere; il secondo: i tanti volti del carcere. Oltre le mura del carcere. Proprio perché conosceva bene, da vicino coloro che scontano la pena della reclusione, il suo impegno non si esauriva in carcere. Mosso dalla urgenza di andare alle radici del male, don Fausto riteneva essenziale impegnarsi per eliminarne le cause. Un aspetto non secondario del suo impegno sociale si esprimeva nella comunità di Sorisole, rivolta soprattutto ai giovani. Un impegno che andava – e va! – a intercettare le fragilità sociali, esistenziali, personali per prevenirne la degenerazione nelle più diffuse e comuni forme di criminalità: piccoli furti, scippi, e altri reati legati alla tossicodipendenza. Il contrasto al crimine e alla illegalità diffusa richiede un’azione integrata dentro e fuori dal carcere: per intercettare precocemente il disagio, laddove possibile, per offrire un percorso di reinserimento alla fine della pena ed abbattere il rischio della recidiva. E anche per immaginare, ove possibile, forme di esecuzione della pena alternative al carcere.

I tanti volti del carcere. «Non tutti i detenuti sono uguali» (16 febbraio 2014). In una intervista di qualche anno fa (28 febbraio 2016), don Fausto diceva di aver vissuto diverse stagioni e di aver visto tanti diversi volti del carcere, almeno sei: il carcere dei detenuti di Prima Linea, il carcere delle tossicodipendenze, il carcere delle mafie, il carcere di mani pulite, il carcere dei poveri, dei senza fissa dimora, dei malati psichici e degli extracomunitari e ora sempre più frequentemente il carcere della violenza domestica e sessuale.Questa sottolineatura è tanto semplice quanto essenziale. Il carcere non è una realtà omogenea. Chi conosce il carcere da vicino sa bene che è una realtà che ha tanti volti diversi e ha bisogno di strumenti adeguati ad ogni condizione: la risposta che l’ordinamento deve approntare di fronte al crimine commesso da un ragazzo che si è fatto intrappolare nella rete della tossicodipendenza non può essere la stessa di chi ha commesso una violenza sessuale o di chi partecipa al crimine organizzato.

Per tutti, il carcere deve avere finestre aperte su un futuro, deve essere un tempo volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Ma le modalità debbono diversificarsi, debbono tenere in considerazione le specificità di ogni situazione. Credo che debba essere letta in questa chiave anche la pronuncia della Corte costituzionale, annunciata dal comunicato stampa dello scorso 15 aprile, sull’ergastolo ostativo. In attesa di leggere con attenzione le motivazioni che chiariranno l’esatto significato della decisione, mi pare che sin da ora si possa ritenere che la Corte ha già individuato nell’attuale regime dell’ergastolo ostativo elementi di contrasto con la Costituzione, ma chiede al legislatore di approntare gli interventi che permettano di rimuovere l’ostatività tenendo conto della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e quindi nel rispetto di regole specifiche e adeguate.

Il carcere ha molti volti e occorre conoscerli da vicino. Oggi abbiamo dovuto conoscere il carcere della pandemia – pandemia che ha colpito così duramente la città di Bergamo, sin dagli inizi e da cui la città ha saputo riscattarsi grazie alla generosità di tanti. Il carcere della pandemia ha portato in primo piano i problemi della salute. Oggi, siamo chiamati a farci carico prioritariamente della salute di chi opera nel carcere e di chi nel carcere è ospitato, per proteggere tutta la comunità carceraria. Occorre procedere con le vaccinazioni e a questo scopo il Capo del dipartimento penitenziario, dott. Bernardo Petralia e io stessa siamo in continuo contatto con le autorità competenti perché il piano vaccinale non subisca interruzioni fino al suo completamento. Desidero rassicurare tutti su questo punto, anche quanti negli ultimi giorni avevano nutrito preoccupazioni a riguardo. Ad oggi, a livello nazionale sono risultati positivi al Covid 737 detenuti, 478 agenti di Polizia penitenziaria e 41 addetti alle funzioni centrali, mentre sono stati coinvolti nel piano vaccinale 9.624 detenuti, 16.819 agenti e 1.780 addetti alle funzioni centrali. Ci auguriamo che il vaccino possa dare sollievo a tutti e speriamo possa essere, oltre che una fondamentale protezione sanitaria da un virus così insidioso, anche una luce capace di alleviare le non meno faticose sofferenze psicologiche che la pandemia ha portato con sé. In una lettera che ho ricevuto recentemente da alcuni detenuti ospitati nel carcere di Milano-San Vittore, nell’esprimere la loro gratitudine per l’impegno a garantire le vaccinazioni nella comunità del carcere, osservavano che «la Costituzione non è soltanto una parola, ma un modo di essere e un modo di agire».

«La sete di relazioni in un carcere è più importante del pane che ti danno», osservava don Fausto già anni fa: queste parole si fanno più vere e comprensibili per tutti, nel tempo che stiamo attraversando. All’interno del carcere, così isolato da tutto e da tutti in questo lungo anno, il disagio può rischiare a volte di spegnere del tutto la fiducia e la speranza, come provano i drammatici suicidi tra agenti della polizia penitenziaria, tra il personale e tra detenuti. Sono fatti a cui non possiamo abituarci. Sono richiami forti, gridi di aiuto.

Questo tempo di pandemia ha acceso un faro sulle tante problematiche connesse alla salute fisica e psichica che in carcere si amplificano e attendono risposte più adeguate di quelle attualmente esistenti. Sono drammi che non possono essere ignorati. La memoria di don Fausto che oggi consegniamo alla città sia sempre di stimolo all’impegno di tutti».

*Ministro della Giustizia

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