«Io e il virus, incubo vissuto 2 volte
La malattia ci rende tutti uguali»

Emi Gao, manager cinese da 12 anni in Italia, è in isolamento da gennaio, prima a Pechino, poi a Milano. «Mio marito e un figlio sono bloccati a Wuhan. Ora dono mascherine ai miei vicini, sono onorata di aiutare l’Italia».

Si chiama Emi. Potrebbe essere italiana, invece è cinese. Emi Gao. Trentasei anni, manager nel mondo delle telecomunicazioni, vive a Milano da 12 anni. Partita dalla Cina per studiare, in Italia ha trovato una laurea, un lavoro, un marito e due figli. E come ogni anno, dall’Italia era partita a gennaio per tornare a casa. Lei con Gary, il bimbo più piccolo, a Pechino, dai nonni. Il marito Qi gang invece a Pechino fa solo scalo, e s’imbarca con Thomas, il bimbo più grande, per Wuhan, casa degli altri nonni. La famiglia si saluta lì, in aeroporto. Ed è l’ultimo abbraccio. È il 20 gennaio, comincia l’incubo di questa famiglia cinese, sì, ma «nata» in Italia.

Emi, poi cosa è successo?

«È successo che mio marito e mio figlio sono arrivati a Wuhan il 21 gennaio, e il 23 la città è stata chiusa. Quando eravamo a Milano purtroppo non avevamo chiara la situazione del coronavirus, non potevamo immaginare che saremmo rimasti bloccati al punto da non poter più nemmeno uscire di casa».

Suo marito è chiuso in casa a Wuhan dal 21 gennaio e non è mai uscito?

«No, mai. In Cina la chiusura è un po’ diversa da quella applicata in Italia».

Può spiegarci come funziona? Quali differenze?

«A Wuhan chiuso vuol dire chiuso. Non si esce di casa, per nessuno motivo. Tutto fermo. Nessuno fa la spesa. La spesa la fa il governo, che consegna a tutti fuori dalla porta di casa due volte alla settimana. Tutto diviso a seconda di quante persone occupano l’abitazione. Lo stesso vale per il ritiro dei rifiuti, una volta alla settimana si lasciano fuori dalla porta. Per il resto la prevenzione ha prevalso su tutto. Così la Cina ha circoscritto il virus nella zona di Hubei».

Però lei è tornata subito a Milano.

«Io sono stata a Pechino un mese, lì non c’era la chiusura totale. Ma nonostante questo sono rimasta chiusa in casa per tutto il tempo. Sono uscita due sole volte per andare a far visita ai miei nonni».

Nel frattempo l’Italia aveva chiuso i voli diretti di rientro.

«Il 20 di febbraio dovevo rientrare in Italia, e pensando di mettermi al riparo dalla diffusione del virus sono tornata, con mia mamma e il piccolo Gary. Ho comprato un altro biglietto perché il mio volo diretto era stato cancellato e con uno scalo a Dubai siamo arrivati a Milano e immediatamente ci siamo messi in isolamento per due settimane, e ho cominciato a lavorare da casa. Mio marito e Thomas sono rimasti a Wuhan, e purtroppo sono ancora lì».

La Cina è riuscita a circoscrivere il virus, l’Europa molto meno.

«La differenza è che la Cina è intervenuta subito, chiudendo. In Italia e in Europa le persone si sono chiuse in casa solo dopo che ci sono stati i primi morti. C’è voluta la paura».

Lei avrebbe applicato anche in Italia le misure adottate a Wuhan?

«Non so questo. Però il fatto di aver “chiuso” il virus a Wuhan ha permesso al resto della Cina di inviare lì medicine, attrezzature e medici di cui in quel momento altrove c’era meno urgenza. In Cina la differenza è che c’è stata una sola emergenza, in un territorio anche se grande. Qui invece con tante emergenze in contemporanea, i medici non bastano più. E sono contenta che la Cina stia anche aiutando l’Italia».

La Cina ha un vantaggio: è un territorio enorme ma è una sola realtà. L’Europa è ancora divisa in singoli stati e l’Italia in singole regioni. Per questo, ognuno si tiene quel che ha.

«Però anche dove non c’è stata l’emergenza come a Wuhan, è stato imposto subito l’obbligo delle mascherine. Come a Pechino. Certo, ce n’era grande disponibilità, a differenza dell’Europa. E in Cina ho visto tanta prevenzione in più. Ogni angolo di strada è stato disinfettato in continuazione. Qui, mi pare che questa attività si faccia meno».

In Italia si discute tanto di chi esce a correre, di chi esce col cane, di chi esce col bambino.

«In Cina niente di tutto questo».

Tornata a Milano per mettersi al sicuro, si è ritrovata nello stesso incubo?

«No, peggio. Pechino non era come la Lombardia adesso. L’avessi saputo sarei rimasta là, ma non potevo saperlo, ovviamente».

Non vede il resto della sua famiglia da gennaio. I bimbi italiani vedono i loro nonni con le videochiamate, anche se magari sono dietro l’angolo. Lo stesso vale per voi, anche a migliaia di chilometri di distanza?

«Tutti i giorni, cerchiamo di cancellare la distanza così. Tra poco Gary compirà un anno, ma purtroppo non ci saranno né il suo fratellino né il suo papà».

Però a Wuhan la vita riparte, o no?

«L’8 aprile si riapre, piano piano. Prima qualche zona, poi altre zone. Questo per prudenza, perché i contagi sembrano finiti, ma ci possono essere sempre persone senza sintomi».

C’è una prospettiva di quando la sua famiglia potrà tornare unita?

«No, ancora no. Si sa che Wuhan proverà a riaprirsi, ma per ora non ci sono né treni né voli. Questa prospettiva, purtroppo, non c’è ancora».

Chiusa in casa a Pechino, chiusa in casa a Milano: a parte il volo via Dubai, lei non esce dal 20 gennaio.

«Un incubo copia-incolla».

Con quali differenze, Emi?

«In Italia purtroppo ho sentito di tanti episodi di razzismo contro noi cinesi, per via della “colpa” del virus. Mi è dispiaciuto molto, e dopo l’isolamento non sono uscita anche per questa ragione. Rientrati in Italia ci ha fatto più paura il razzismo del virus, lo ammetto. Io anche per contrastare questa cosa ho comprato in Cina tremila mascherine per i miei vicini di casa, tanti sono anziani. Purtroppo almeno duecento sono state rubate durante la sosta in dogana. Tanti cinesi stanno donando materiale agli ospedali e alla gente italiana: questo per noi è motivo di grande onore».

Insegnerà qualcosa, questa tragedia infinita?

«Spero che ci insegni che questo stupido razzismo deve finire. E che davanti alla malattia siamo tutti uguali».

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