Ispirata dal «dottor Stranamore»
costruisce tanti ponti di speranza

La Buona Domenica. Serena Panzeri dopo la drammatica esperienza in famiglia fonda un’associazione che aiuta i malati oncologici.

«Cara Santa Lucia, portami per favore una cartella da maschio». Serena Panzeri è rimasta sorpresa quando ha letto la letterina di sua figlia: «Come mai ti serve?» le ha chiesto. E lei ha spiegato che era per un amico che ne aveva bisogno. «Si sopravvive di ciò che si riceve - scriveva Gustav Jung - ma si vive di ciò che si dona». Mettersi a servizio degli altri è una caratteristica di famiglia: regalare un pezzo di se stessi, del proprio tempo, è una strada speciale che conduce verso nuove opportunità di felicità e rinascita. È questo il motore che ha spinto Serena a fondare l’associazione «The Bridge for Hope» (Il ponte della speranza) per sostenere i malati oncologici con attività che si prendano cura del loro benessere a tutto tondo, affiancando e integrando le terapie sanitarie.

La morte del padre

L’idea è nata dall’esperienza di papà Gianfranco, morto dodici anni fa per un tumore ai polmoni, anche lui impegnato in ambito sociale. Ha dato vita, fra l’altro, con la sua famiglia alla Fondazione Panzeri-Bortolotti, che gestisce il centro diurno integrato e residenza temporanea per anziani «Andrea e Maria Panzeri» affacciato sul lago d’Iseo, a Esmate di Solto Collina.

«La più grande passione di mio padre - spiega Serena - era il suo lavoro nell’azienda di famiglia, l’Industria chimica Panzeri (Icp), che era stata fondata da suo padre e che attualmente ha sede a Orio al Serio; i miei fratelli Francesca, Andrea ed io ne stiamo portando avanti l’attività».

Gianfranco era anche un forte fumatore: «Quando l’Istituto oncologico europeo ha promosso dei check up mirati per questa categoria di persone, mio padre ha colto l’occasione e purtroppo ha avuto una brutta sorpresa, un nodulo in un polmone».

Effetti devastanti

La diagnosi è stata una doccia fredda: «Non avremmo mai voluto sentir parlare di tumore, ovviamente, ma in quell’occasione i medici ci avevano rassicurato, sembrava che ci potesse essere un’evoluzione positiva, e che l’intervento chirurgico avesse risolto tutto: non c’erano metastasi e non ha dovuto essere sottoposto a particolari terapie». Nonostante i controlli regolari, però, tre anni dopo c’è stata una ricaduta: «Si è sviluppata, purtroppo, una metastasi ossea e quando i medici se ne sono accorti era ormai molto diffusa e incurabile. Ci hanno detto che la situazione era gravemente compromessa e gli restavano solo poche settimane di vita. Abbiamo tentato di tutto, ci siamo messi in contatto anche con un oncologo di fama internazionale a Boston, sperando di riuscire a inserirlo in un protocollo sperimentale. Purtroppo non ce n’è stato il tempo». Serena all’epoca aveva già iniziato a svolgere attività di volontariato in ospedale proprio nei reparti oncologici: «Mi era capitato di conoscere gli effetti devastanti del cancro su persone a me vicine, parenti, conoscenti, genitori di amici, così fin dagli anni del liceo avevo deciso di dedicare un po’ del mio tempo ad alleviare la solitudine dei malati. Durante la malattia di mio padre, poi, ho conosciuto il Dempsey Center nel Maine, che offre cure gratuite a pazienti oncologici, e sono rimasta impressionata dalla sua attività».

Il centro di Patrick Dempsey

Il periodo della malattia del padre le ha lasciato nel cuore una traccia di tristezza e di inquietudine: «Ricordo che si era creato un cortocircuito comunicativo nella nostra famiglia: nessuno di noi voleva esasperare le preoccupazioni degli altri, ma le informazioni dei medici ci terrorizzavano e non avevamo neppure la capacità di gestirle, come in generale la situazione in cui ci trovavamo. Forse proprio la solitudine e la disperazione provate in quel momento mi hanno sollecitato a trovare un modo per aiutare altre persone a stare meglio, a migliorare la qualità della vita e delle loro relazioni umane. È questo l’obiettivo del Dempsey Center, fondato dall’attore Patrick Dempsey (Derek, il dottor Stranamore, nella serie tv “Grey’s Anatomy”) dopo la morte della madre per un tumore ovarico nel 2008 e specializzato nelle terapie di sostegno ai malati e ai loro familiari attraverso lo sport, lo yoga, i trattamenti di bellezza e moltissime altre attività».

Fonda «The Bridge for Hope»

In quel momento Serena era riuscita solo a chiedere informazioni: «Mi aveva colpito il tono gentile della risposta, la disponibilità ad accoglierci a braccia aperte. Per questo poi ho deciso di mantenere un legame con il Centro e di continuare ad approfondire la conoscenza dell’attività svolta. Sono andata a trovarli, continuo tuttora a farlo ogni anno, ho approfondito le metodologie che usano. Intanto i miei figli, nati poco dopo la morte del nonno, sono cresciuti, oggi hanno 11 e 10 anni, e ora ho più tempo da dedicare al volontariato».

Affascinata dall’«approccio olistico» del Centro Dempsey, Serena ha approfondito le possibilità che offriva, dal Pilates al Tai Chi, dai gruppi di assistenza psicologica per i malati e i familiari ai campus estivi per i figli dei pazienti, fino ai gruppi di intrattenimento come il cucito, e a quelli per superare il lutto. «Un’esperienza come questa lascia tracce profonde nel cuore di chi rimane. Un corredo di sofferenza e di rabbia. Come dice Dempsey la vita acquista senso quando riesci a migliorare quella degli altri: a me è sembrato che negli ospedali che avevamo frequentato ci fosse un vuoto da riempire, che mancasse un supporto per la persona nel suo complesso». Man mano che raccoglieva questi elementi nel cuore di Serena è germogliato un sogno: «Per far nascere un vero progetto, però, mi sono impegnata a raccogliere più informazioni possibili e a cercare le risorse finanziarie. Così cinque anni fa è nata l’associazione The Bridge for Hope, che ho fondato con Caterina Pettinato, formatrice e coach laureata in Psicologia, che vive a Reggio Emilia e porta avanti anche lì i nostri progetti. Quattro anni fa ho conosciuto Oncology esthetics Italia (Oti), il metodo con cui vengono formate le estetiste che si occupano di pazienti oncologici, ma anche una famiglia e una filosofia di vita. Così abbiamo avviato l’attività di estetica oncologica. Entravamo in reparto una volta alla settimana all’Humanitas Gavazzeni con alcune estetiste formate con il metodo Oti. Offrivamo alle pazienti informazioni su come gestire le complicazioni legate alla chemioterapia, come la caduta delle sopracciglia e dei capelli». L’obiettivo dell’associazione The Bridge for Hope (www.thebridgeforhope.it - [email protected]), come dice lo slogan sul volantino di presentazione, è mettere «la persona al centro». Così con il progetto «AccarezziAmo la vita» si è impegnata anche ad aiutare le pazienti ad affrontare la diagnosi: «Alla disperazione di quei momenti - sottolinea Serena - spesso si affianca anche la tendenza a isolarsi per la difficoltà di accettare il proprio aspetto fisico. Offrire trattamenti estetici nelle giornate delle terapie era un modo per alleviare la tensione e concedere la possibilità di rilassarsi e sentirsi coccolate». Il progetto era partito bene e aveva raccolto molto apprezzamento finché è iniziata la pandemia: «Dopo abbiamo dovuto reinventarci - sottolinea Serena - e abbiamo potuto continuare in parte la nostra attività solo grazie alla possibilità offerta dalle nostre estetiste di accogliere le pazienti nei centri estetici. Abbiamo avviato anche una collaborazione con il Centro Ananda per offrire attività di ginnastica posturale, e questa attività con la pandemia è proseguita in modo virtuale, con la possibilità di seguire online le lezioni di diverse discipline, come Yoga, Pilates e Tai Chi, accompagnati da istruttori che tengono conto delle necessità particolari dei malati oncologici. È sempre l’associazione a farsi carico di queste attività. Abbiamo pensato che in un momento in cui la nostra vita è stravolta in molti modi, dal punto di vista affettivo, sociale ed economico, questa è sicuramente una preziosa opportunità. Purtroppo è diventato difficile raggiungere i pazienti, dato che non possiamo più essere presenti in ospedale».

Virale la foto dalle Mura

Dopo tanti viaggi annuali nel Maine, Serena a causa della pandemia non ha potuto nemmeno partecipare alla Dempsey Challenge, manifestazione sportiva di carattere benefico che il Centro organizza per raccogliere fondi, e che per lei era ormai diventata una bella tradizione familiare: «Di solito ci andavo con mio marito e i miei figli. Quest’anno l’esperienza si è svolta in modo virtuale e per prendervi parte a distanza, quando ancora si poteva uscire, ci siamo cimentati in una bella camminata in Città Alta e in una pedalata in riva al lago nella zona di Monasterolo. Abbiamo inviato le nostre foto e quella scattata sulle Mura Venete, condivisa da Patrick Dempsey sui suoi canali social, ha fatto il giro del mondo, come omaggio alla città di Bergamo, così duramente colpita dalla pandemia».

Difficoltà nella pandemia

Come scrive Benjamin Disraeli, «Il regalo più grande che puoi fare a un altro non è condividere le tue ricchezze, ma fargli scoprire le sue». Così Serena con cura e attenzione cerca di mettersi nei panni dei pazienti oncologici per far emergere i loro desideri e le loro risorse personali. «Alcuni quando ricevono la diagnosi sentono subito il desiderio di poter parlare ed essere ascoltati: c’è invece chi ama leggere, chi preferisce stare da solo. Ogni porta, ogni persona ha una chiave e un sogno da esprimere e da realizzare». Il pensiero di Serena va alle persone più fragili: «Molti hanno subito ritardi nelle diagnosi e nelle terapie e devono affrontarle senza alcun sostegno, neppure da parte dei familiari, a causa dei protocolli ospedalieri. Questo fra l’altro può comportare molte difficoltà anche nel passaggio di informazioni tra medici e pazienti, pensando soprattutto a quelli più anziani, fragili e debilitati. Il mio desiderio più grande, quest’anno, è di poterli incontrare di nuovo».

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