Michele, dall’incubo alla gioia in 66 giorni
Fu il primo ricoverato in terapia intensiva

La testimonianza Michele Passoni, 59 anni, è stato il primo paziente ricoverato in terapia intensiva il 27 febbraio «Intubato, poi l’Ecmo: ricordo gli incubi. Mi sono svegliato il 22 marzo. Il momento migliore? Toccare l’acqua»

Michele Passoni, 59 anni compiuti da intubato, tecnico del verde del Comune di Bergamo (abita a Valtesse), è stato il primo paziente ricoverato in terapia intensiva al Papa Giovanni, il 27 febbraio. Ieri, dopo 66 giorni, è uscito a piedi, in tuta e sneakers, dall’ ospedale degli alpini, finalmente negativo. Al telefono, la voce ha l’ allegria dei naufraghi scampati. L’ intubazione, toccando le corde vocali, gli ha lasciato una traccia e arrota un poco la «r».

«I primi sintomi febbrili - racconta - si sono manifestati il 25 febbraio e quando il 27 ho avuto difficoltà respiratorie il mio medico, il dottor Paolo Bamberga, ha chiamato il 112, che all’ inizio non voleva ricoverarmi, ma il medico ha insistito e sono entrato al reparto infettivi del Papa Giovanni. Nel giro di poche ore sono stato trasferito in terapia intensiva, intubato e sedato. Lo sono rimasto dal 29 febbraio al 5 marzo, ma continuavo a peggiorare e il 6 marzo sono passato all’ Ecmo, la respirazione extracorporea. Probabilmente l’ eparina mi ha salvato la vita».

Sotto Ecmo è rimasto dieci giorni.

«Per i miei familiari è stato il periodo peggiore. Poi è continuata la ventilazione forzata e il 19 marzo sono stato tracheotomizzato. Progressivamente la sedazione è stata diminuita e mi sono svegliato a primavera, il 22 marzo».

Cosa ricorda?

«Incubi. L’ impressione di stare in un letto rotondo, figure e luci. Rumori, fruscii, stavo in una giungla con la pioggia a dirotto, l’ ospedale era in cima a un grande albero, un senso di angoscia I dolori fisici sai cosa fare per affrontarli, ma l’ aspetto psicologico ti coglie di sorpresa. Ho avuto tre colloqui con la psicologa del Papa Giovanni e mi ha aiutato».

Poi, finalmente il trasferimento all’ ospedale degli alpini.

«Sono stato in intensiva fino al 19 aprile. L’ ospedale è una meraviglia, se si pensa a come è nato: funziona tutto perfettamente. Peccato che per mancanza di medici e infermieri non possano essere occupati tutti i 144 letti».

Il momento peggiore?
«Quando un grumo di sangue ha bloccato la cannula della tracheotomia e non riuscivano a sbloccarlo. Alla fine ho tossito per disperazione, avevo davvero gli occhi fuori dalla testa. Certo, soffri tutto il tempo. E fra buchi e aghi e tubi e collegamenti alle macchine... Anche quando stai meglio, vivi col saturimetro e la mascherina anche di notte».

Il momento migliore?
«Quando, dopo cinquanta giorni, ho toccato l’ acqua. La sensazione dell’ acqua corrente sulle mani».

Com’ è essere curati dai russi?
«Sono molto bravi, pronti. Sono tutti militari del reparto specializzato controlli chimici. Alcuni hanno il brevetto di paracadutista, anche tra le infermiere. Sono blindatissimi. Le tute sono quelle che si portano quando si usano gli antiparassitari, le maschere ermetiche».

E per capirsi?
«Sono sempre accompagnati da un interprete. Quando ero tracheotomizzato, un volontario italiano mi leggeva il labiale e ripeteva, poi l’ interprete traduceva in russo. C’ era anche un Angelo Roncalli - sì, come il Papa - che parlava solo in dialetto e i russi andavano nel panico. Allora qualcuno di noi traduceva in italiano e poi dall’ italiano al russo». E del personale italiano che cosa pensa?

«Mi hanno commosso i fisioterapisti volontari: un gruppo di lombardi, coordinati da Paolo Valli che è docente all’ università Bicocca. Hanno lavorato gratis per due mesi, dormendo in seminario. Arrivavano alle 7,30 e siccome era presto per la fisioterapia cominciavano a distribuire le colazioni e anche a imboccare i pazienti. Gli infermieri di Emergency si sono rifiutati di farlo, perché non lo ritenevano loro compito, invece questi aiutavano. Ti accompagnavano in bagno, solo loro si prendevano il rischio di farti uscire dal letto con deambulatore e bombola.

Sempre vicino ai malati, con professionalità e umanità.

Adesso sono stati mandati a casa senza tamponi. Siccome i volontari della protezione civile possono essere pagati anche 200 euro al giorno e ricevono i tamponi, mi sono indignato per le differenze e in ospedale ho parlato con il coordinatore Oliviero Valoti e sono riuscito anche a raggiungere il sindaco Gori. Mi risulta che abbia parlato con l’ Ats, ma senza risultati, perché i fisioterapisti non sono negli elenchi della protezione civile. Anche se hanno lavorato due mesi in mezzo ai malati di Covid».

Adesso che è a casa, si sente in salvo?

«Sono negativo, quindi guarito. Ma nessuno può sapere se sono immune e a casa siamo in tre, continuerò a vivere con la mascherina. La nostra famiglia ha pagato il Covid molto caro: io sono vivo, ma mio padre è morto mentre ero in intensiva. Me l’ hanno potuto dire solo un mese dopo».

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