Nel pronto soccorso che fu una Guernica
«Ma ora non c’è più l’invasione di marzo»

Viaggio nel centro emergenze del Papa Giovanni: solo 4 pazienti nella sala di terapia intensiva. La responsabile: «In primavera ce n’erano 22. Il 70% arriva da fuori provincia, ma non abbassiamo la guardia»

Sotto i neon di questa stanza sono passate le telecamere delle tv internazionali e forse anche la storia. Era marzo, qui dentro si veniva a documentare un girone dantesco, tra il rumore degli sfiati dei macchinari per l’ossigeno che sembrava di stare in una fabbrica e gli spasmi di gente che rincorreva l’affanno del respiro successivo: la Guernica del Covid. «All’epoca, qui nella sala di terapia intensiva del pronto soccorso, c’erano 22 pazienti, tutti con i caschi C-pap e gli occhi spaventati, che chiedevano conforto con lo sguardo. Io bluffavo, dicevo loro che andava tutto bene . Ma non era vero, qualcuno l’ho visto anche morire», racconta la dottoressa Renata Colombi, responsabile del pronto soccorso dell’ospedale Papa Giovanni, increspando per un attimo il tono e una prosa fin lì farcita di pungente ironia, un po’ alla Alan Alda, il medico protagonista del telefilm Mash su un ospedale da campo americano durante il conflitto in Vietnam.

«È stata una guerra anche la nostra, da cui qui in pronto soccorso siamo usciti ammaccati ma più uniti - ammette -. Facevamo gli aperitivi attraverso la piattaforma Zoom per i collegamenti video su internet, sempre via Zoom una nostra collega ci dava lezioni di yoga. Si deve essere sempre di buon umore, anche in queste situazioni, altrimenti non ce la fai a sopportare questo lavoro. Anche se, devo confessare, a marzo non c’era neppure il tempo per sorridere e fare battute».

C’è un’aria di sana leggerezza in questo avamposto, nella zona no-Covid dove sui lettini ora stanno sdraiati una ragazza e un uomo, arrivano persino le note di una canzone. «Certo - conferma divertita davanti al disorientamento del cronista la dottoressa -, teniamo la radio accesa. Qui arrivano pazienti preoccupati: se sentono la musica e si trovano davanti personale che sorride si rilassano».

Non ci sono più le file di barelle cariche di contagiati che in primavera facevano da corona ai muri dei corridoi e neppure le code di ambulanze in attesa di scaricare i trasportati (ieri, durante la nostra visita, dalle 14,30 alle 16, ne sono arrivate un paio). Anche la sala di terapia intensiva che 8 mesi fa ospitava 22 persone, oggi è piuttosto sguarnita: 4 pazienti. Uno è un signore che si alza tranquillamente dal lettino e sbuffa contrariato: «Sto aspettando un medico da due ore, speriamo che arrivi». La dottoressa Colombi replica a tono: «Il medico arriverà, non è in giro a divertirsi, sta visitando altri pazienti». Poi, con aria complice, sussurra al cronista: «Se ha fiato per lamentarsi, vuol dire che non sta poi così male. Prima arrivavano e dicevano “mi scusi”. Ora qualche arrogante lo trovi. Non siamo più i medici eroi di marzo, ma sapevamo che sarebbe durato poco».

La fiamma bugiarda dell’estate in discoteca s’è presto spenta e ora ci si affaccia sull’inverno con l’inquietudine di numeri tornati minacciosi. Aumentano anche a Bergamo contagi e ricoveri, ma «qui da noi tutto sommato va benino - osserva Colombi -. Siamo circondati da province con molti contagi, ma non credo si tornerà alla situazione di prima. Il 17 marzo gli accessi al pronto soccorso erano stati 120. Ora sono una ventina al giorno e riguardano pazienti meno gravi. Di questi la maggior parte, circa il 70%, arriva dal resto della regione tramite i check point di Milano e Monza o dalla Bassa bergamasca che nella prima ondata era stata meno colpita. I bergamaschi con Covid che arrivano qui sono in media 5-6 al giorno. Una spiegazione da marciapiede potrebbe essere quella di una sorta di “immunità di gregge”. Bergamo ora isola felice? No, isola che ha già dato». Solo il 40% di pazienti che approdano al pronto soccorso risulta positivo. «Paradossalmente a marzo era più facile - confessa -, perché erano tutti Covid e la terapia era sempre la stessa. Ora arrivano con difficoltà di respiro e devi capire se è influenza, embolia polmonare o altro. Ci sono molte più responsabilità per noi».

La dottoressa Eugenia Belotti, in una stanza lungo il percorso Covid, sta misurando i valori a un paziente che tossisce sotto la mascherina. «Paura? No - assicura -, è meno pericoloso qui che sui mezzi pubblici». Non tutti finiscono in reparto. «Solo i più gravi - precisa Colombi -, gli altri vengono dimessi , se possono rimanere isolati. In questi giorni abbiamo ricoverato marito e moglie di 96 e 95 anni nella stessa stanza: non sono gravi, ma sono positivi e a casa non avrebbero assistenza. I casi meno preoccupanti li teniamo qui: se li mandassimo in reparto, rischieremmo di precludere il ricovero a gente più grave che potrebbe arrivare da un momento all’altro. Bisogna fare le formichine, la guardia non va abbassata».

Tornano ad affacciarsi al triage persone che di cure urgenti non necessiterebbero, tipi che in primavera erano spariti dai radar perché presentarsi in un ospedale a quei tempi significava rischiare il contagio. In fondo, il sintomo che la situazione non è più così drammatica. «Di là c’è uno che ha un raffreddore da mesi e vorrebbe una visita allergologica», ragguaglia la dottoressa. Che ora sotto la mascherina sembra celare, anziché la solita ironia , un sorriso tenero.

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