Nicolò, la caduta dalla seggiovia
poi lo slalom con la vita per ripartire

A 14 anni il terribile incidente, ora a 19 anni è sulle piste pronto a diventare maestro di sci.

Il pettorale rosso nello sci è un segno di distinzione: in gara lo indossa solo il leader della classifica. Nicolò De Beni, 19enne di Bergamo, non l’ha conquistato in gara, l’ha ottenuto in dono come simbolo della sua rinascita dopo un gravissimo incidente: così per lui ha avuto un significato più profondo, non soltanto sportivo, come riconoscimento di tenacia e di un incredibile coraggio. Racchiude in un lembo di stoffa la misura altissima della sua vittoria contro il buio.

L’incidente a Ponte di Legno

Non lo indossava ma lo teneva nel cuore - come un pensiero luminoso - il 21 febbraio del 2016, nella sua prima discesa un anno dopo l’incidente, una caduta da otto metri e mezzo dalla seggiovia di Temù, a Ponte di Legno: nel mezzo ci sono state diverse operazioni, sette mesi in ospedale, una ripresa estenuante dopo un abisso di silenzio e dolore, la sedia a rotelle, la fisioterapia, le stampelle. Aveva 14 anni, oggi ne ha 19, frequenta l’ultimo anno di liceo scientifico all’istituto Leonardo Da Vinci. Dopo tutto questo, si è lasciato le ombre alle spalle e a marzo affronterà la selezione nazionale per poter diventare maestro di sci.

Attesa per il test da maestro di sci

«Dopo aver terminato il liceo - spiega con un sorriso - mi iscriverò a Scienze motorie, ma il mio desiderio più grande è lavorare nel mondo dello sci, che fin da piccolo è lo sport che preferisco. Quando ho iniziato avevo tre o quattro anni, e sono entrato nel primo gruppo, che allora si chiamava “nuove leve”, con lo Sci Club Radici Group. Già allora mi divertivo moltissimo, e ho proseguito passando via via nelle diverse categorie giovanili. All’inizio non era il mio sport principale, ho provato anche tennis e nuoto. Nello sci però sperimento un senso di libertà, una continua sfida con me stesso che in altre discipline non ho trovato, ed è un modo straordinario per liberare la mente da qualunque pensiero».

Nicolò segue un serio programma di allenamento, anche quest’anno, nonostante le limitazioni della pandemia: «La situazione è molto difficile, gli impianti sono chiusi e non sappiamo se e come riapriranno. L’incertezza mi pesa soprattutto in vista della selezione che devo sostenere, un concorso pubblico attraverso il quale vengono selezionati gli atleti che possono poi diventare maestri di sci. Il bando è stato bloccato a causa del covid-19. Sto ancora aspettando di capire cosa accadrà, nel frattempo però continuo la mia preparazione».

Lo sport fa parte del suo codice genetico: «Mi fa piacere che entrambi i miei figli - spiega il padre Giuseppe - Nicolò e suo fratello Jacopo, che ha 22 anni, si siano cimentati, ognuno secondo le proprie preferenze. Abbiamo sempre pensato che una disciplina sportiva abbia anche un forte valore educativo. Nicolò ci ha messo un particolare impegno e dedizione e ha dimostrato fin dall’inizio di avere anche molto talento». Durante il lockdown ha continuato ad allenarsi trasformando il terrazzo di casa, in città, in una palestra.

«Molti pensano che lo sci sia uno sport individuale - osserva Nicolò - che ognuno in gara pensi solo a se stesso. In realtà la squadra è importante, ci sosteniamo a vicenda, ci stimoliamo a dare il meglio di noi stessi. Non bastano gambe e muscoli, per vincere ci vuole anche la testa, altrimenti è impossibile affrontare ostacoli e imprevisti che si verificano sulle piste. Gli atleti sfidano anche le condizioni atmosferiche, le temperature rigide. Molti per mantenere un migliore controllo svolgono esercizi di meditazione. Il legame e l’amicizia della squadra aiutano ad affrontare le prove e a crescere. Anche per me è stato così, soprattutto nei momenti più difficili: avere accanto i miei compagni che mi spronavano a non mollare mi ha spinto a superare i miei limiti».

Il ricordo di quel buio gennaio

In un giorno buio di gennaio del 2015 Nicolò si trovava a Temù per partecipare a una delle prime competizioni dell’anno. «Aveva nevicato molto - racconta -, il clima era freddo. Sono salito sulla seggiovia di corsa, con uno zaino pesante sulle spalle, le racchette e gli sci. La sbarra di sicurezza non si è abbassata, forse bloccata dal ghiaccio, così nella fretta non sono riuscito a sistemarmi in modo sicuro sul sedile. Ero solo, la seggiovia proseguiva la sua corsa e all’altezza del terzo pilone ho sentito il sedile vibrare e ho capito che stavo per cadere, mi sono sentito scivolare giù da un’altezza di otto metri e mezzo. Non sono riuscito a pensare, ho chiuso gli occhi, ho serrato le mascelle, mi sono preparato all’impatto. Sono atterrato su un punto in cui c’era neve fresca che miracolosamente ha un po’ attutito la caduta. Mi sono rotto un femore, il bacino, l’osso sacro, alcune costole, ho avuto un’emorragia interna, ma non ho mai perso conoscenza. Due sedili davanti a me c’erano fortunatamente due membri del soccorso alpino che mi hanno sentito gridare e hanno chiamato subito il 112. Dietro di me c’era un medico che è stato il primo ad aiutarmi e ha rimesso in sede la spalla, anche lei finita fuori posto». Nicolò ricorda ancora chiaramente quei momenti concitati: «Mi hanno portato in ospedale con l’elicottero».

Il grande dolore

Aveva le ossa frantumate: «Era come se fossero esplose. Non ho sentito subito il dolore, è arrivato più tardi, quando ormai ero in ospedale, in un susseguirsi di visite ed esami, mi ha sommerso come un’onda. All’inizio non mi sono reso conto di quello che mi stava accadendo».

Il giorno dopo Nicolò è stato sottoposto a un delicato intervento per ricomporre il bacino e il femore. «Prima hanno dovuto applicarmi un peso che estendesse la gamba per riportarla nella posizione corretta. Dopo due settimane mi hanno riaperto per ricostruirla». Ci sono voluti mesi in ospedale, un percorso di guarigione lento e doloroso. «Avevo il divaricatore per il bacino e il tutore per la gamba. È stata un’esperienza molto difficile. Fortunatamente c’era mia madre Johanna, che mi è sempre rimasta accanto. Il mio pensiero fisso era di rimettermi in piedi prima possibile. Ci sono stati momenti terribili, in cui desideravo soltanto essere lasciato in pace, ma ho sempre cercato di tenere duro, e alla fine ce l’ho fatta».

Al momento dell’incidente Nicolò era a metà della terza media: «Sono riuscito a concludere il percorso e a non perdere l’anno. Ho iniziato poi la prima superiore sulla sedia a rotelle. In autunno sono stato sottoposto a un nuovo intervento per la rimozione delle viti nel bacino e nel femore e poi ho dovuto aspettare un mese e mezzo prima di poter tornare di nuovo a camminare. È stato strano, mi sentivo troppi sguardi addosso, forse i compagni avrebbero voluto aiutarmi ma non sapevano come. A un certo punto ho capito di dover cercare una soluzione a quel disagio dentro di me: ero l’unico in grado di sistemare la situazione. È stato un percorso accidentato, presentarmi in classe ogni mattina era una fatica, mi pesava essere considerato “diverso”, dover fare i conti con i giudizi e la compassione degli altri. Mi sono trovato ad affrontare tante situazioni difficili in un breve intervallo di tempo».

In quei momenti non era sicuro di rimettere gli sci: «Ero pieno di dubbi e probabilmente avrei rinunciato se la mia famiglia e i miei amici non mi avessero appoggiato nel proposito di ricominciare. Mi sono reso conto che restare lontano dalla montagna per me era il male peggiore e che se lo avessi fatto il rimpianto mi avrebbe tormentato per sempre. Così sono tornato sulle piste, affiancato dall’allenatore che mi aveva seguito fin da bambino: senza il suo aiuto non sarei riuscito a superare le paure iniziali. Ero spaventato ed entusiasta, sentivo ancora dolore, temevo di sforzare eccessivamente la gamba, di farmi di nuovo male. Poi mi sono reso conto che miglioravo di giorno in giorno, così ho ripreso slancio».

Il pettorale rosso

I suoi genitori hanno messo da parte le loro paure preoccupandosi solo della felicità del figlio: «Eravamo preoccupati - spiega il padre - quando Nicolò ha annunciato di voler tornare in pista, ma poi ci hanno convinto la sua tenacia, la sua determinazione, la felicità che lo illumina tutte le volte che indossa gli sci». Sono state molte le testimonianze di vicinanza e di solidarietà espresse sia dallo Sci club sia dai compagni di squadra: «Uno di loro, Matteo Bendotti, gli ha regalato il pettorale rosso destinato al primo classificato. Glielo ha portato in ospedale e lui lo ha indossato nella prima gara dopo l’incidente, pienamente meritato per la determinazione dimostrata nel recupero, per la forza che gli ha permesso di rinascere».

I cambiamenti in famiglia

L’incidente ha avuto un effetto dirompente non solo per Nicolò ma per tutta la sua famiglia: «Le nostre priorità - spiega la mamma Johanna - sono cambiate. Tante cose hanno perso importanza, scivolando sullo sfondo. Lo abbiamo seguito nell’immensa fatica di sopportare il dolore, nel rapporto con i farmaci antidolorifici, nella necessità di usare la sedia a rotelle, quindi di ricavarsi tempi molto più lunghi».

La madre, psicoterapeuta, ha deciso di cambiare vita e alla fine ha chiuso il suo studio: «Ho sentito che era arrivato il momento. La nostra famiglia è stata messa a dura prova da ciò che è successo. Quando mio figlio si è ripreso ho pensato che dopo essere stata così fortunata, per essere riuscita ad attraversare tutto questo, dovevo dare qualcosa in cambio. Ho deciso di dedicarmi al volontariato con l’associazione Abio che accompagna con diverse attività i bambini in ospedale, un desiderio che del resto avevo nel cuore da molto tempo».

Nuova prospettiva sul mondo

Per Nicolò si è attuato così un processo doloroso ma alla fine splendente di trasformazione: «Questa vicenda mi ha dato molto, sia dal punto di vista personale sia atletico. Ho acquistato una prospettiva diversa sul mondo, ho davvero imparato che non si può arrivare da nessuna parte senza fatica, e che bisogna lottare al meglio di sé per realizzare i propri sogni».

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