Paolo, in trincea per «difendere» il Gemelli
«Da due mesi ormai non vedo i miei figli»

Paolo Sergi abita a Costa di Mezzate e lavora come responsabile dei sistemi informativi al Policlinico. «Abbiamo fronteggiato anche attacchi informatici»

Paolo Sergi, l’uomo dell’ «altro» fronte. Quel fronte che corre parallelo alla linea composta da medici, infermieri, parasanitari. Non esiste un letto di terapia intensiva che non abbia bisogno di pc e software ultra sofisticati. Di sensori, allarmi e componenti che monitorino il paziente h24. Di strumentazioni in grado di assicurare performance di altissimo livello, senza interruzione, e trasmettere informazioni cliniche in totale sicurezza.

Ecco, Paolo Sergi è l’uomo dell’altro fronte, quello informatico. Lui, 54 anni, originario di Grumello del Monte e residente con la famiglia a Costa di Mezzate, dal 2018 è alla guida dei sistemi informativi del Policlinico Gemelli di Roma. Vive nella capitale da un paio d’anni, e nel fine settimana fa la spola con Bergamo. «Facevo la spola. Ormai sono bloccato a Roma, non vedo i miei figli da due mesi». Due mesi scanditi da una corsa contro il tempo. «Qui, in ospedale, sapevamo di avere un solo vantaggio: il tempo.

Eravamo indietro rispetto a Bergamo di un paio di settimane e sapevamo che era questo il nostro margine per fermare la valanga prima che fosse troppo tardi. In pochi giorni, a inizio marzo, siamo riusciti ad allestire il secondo centro d’infettivologia covid del Lazio, dopo lo Spallanzani, riadattando il Columbus, una struttura ospedaliera attigua al Gemelli. In sei giorni siamo riusciti a mettere a disposizione i primi 21 posti letto di terapia intensiva. Uno sforzo enorme che, ad oggi, ci ha portato ad avere 70 posti di terapia intensiva, 30 di sub intensiva e altri 70 di degenza».

Uno sforzo per i sanitari, ma anche per chi lavora subito dietro, in seconda fila: «I letti di terapia intensiva sono oggetti molto tecnici, necessitano di apparecchiature complesse che peraltro devono essere costantemente sanificate. E una delle difficoltà di quei giorni è stata reperire sul mercato i dispositivi informatici ed elettronici necessari per farli funzionare: scarseggiavano ovunque». Proprio come le bombole d’ossigeno, proprio come i farmaci.

«Gestire l’emergenza sanitaria significa anche gestire un’emergenza organizzativa, soprattutto in una delle strutture più complesse d’Italia che coniuga clinica, ricerca e didattica: in pochi giorni abbiamo dovuto attivare 450 nuove postazioni per lo smart working, far funzionare a distanza la logistica, l’amministrazione. E abbiamo dovuto difenderci da attacchi informatici ripetuti: più il virus avanzava, più partivano attacchi». Un lavoro reso ancor più difficile dal filo, tutt’altro che sottile, che lega Paolo a Bergamo: «Le notizie che mi arrivavano da casa, e che ancora arrivano, erano terribili. Bergamo sembrava una città isolata: lavoro in un ospedale e non sono riuscito a mandare ai miei familiari dei saturimetri, i corrieri si rifiutavano di spedirli. Chiamavo miei amici medici, e mi rispondevano mentre erano ricoverati, loro stessi contagiati. Se il virus avesse picchiato con la stessa intensità anche qui, a Roma, non saremmo stati in grado di reggere l’urto. Viste le dimensioni della città, sarebbe stata un’ecatombe».

E se il contagio, nella capitale, è stato certamente più contenuto che a Bergamo, lo stesso non si può dire degli sforzi degli operatori sanitari: «Ho visto grandi professori smarriti, con lo sguardo perduto. Medici con anni di esperienza alle spalle che non nascondevano la preoccupazione. Perfino una caposala di oncologia, abituata a vedere situazioni di grande dolore, distrutta dalla consapevolezza di aver paura, oltre che per i pazienti, anche e per la prima volta per se stessa. E quando chiedevano a me, della mia città, il loro sguardo non poteva che farsi ancor più smarrito».

© RIPRODUZIONE RISERVATA