Siamo il Paese
dei «matusa»

Siamo il Paese dei matusa. Ce lo conferma l’ultimo rapporto Istat. L’indice di vecchiaia (che si calcola dividendo il numero di italiani sopra i 65 anni per quello di chi ha meno di 15 anni) nel 2018 ha raggiunto quota 168,9, un nuovo record nazionale, come ci fa sapere l’Istituto di statistica nello studio «Noi Italia». Per il tasso di fecondità, invece, l’Italia è ultima in Europa insieme alla Spagna.

Si attesta su una media di 1,32 figli per donna, in linea con il 2017, un valore sensibilmente inferiore alla cosiddetta «soglia di rimpiazzo» di 2,1 che garantirebbe il ricambio generazionale. Le madri hanno in media quasi 32 anni, mentre le più giovani risiedono nel Mezzogiorno. A livello europeo l’Italia, con quasi il 12 per cento degli oltre 512 milioni di abitanti dell’Ue, è il quarto Paese per importanza demografica dopo Germania, Francia e Regno Unito. Crescono, invece, i cittadini stranieri: Al primo gennaio 2018 ne risiedono in Italia 5,1 milioni, l’8,5 per cento del totale dei residenti. Rispetto a un anno prima aumentano di 97 mila unità. Ma anche tra gli stranieri l’indice di fecondità è in calo, in sintonia con il trend dei cittadini italiani.

È un quadro davvero sconsolante quello dell’Istat: si è ridotto anche il numero dei matrimoni. Il quoziente di nuzialità infatti scende a 3,2 matrimoni per mille abitanti. L’Italia è uno dei Paesi dove ci si sposa meno; solo Portogallo, Slovenia e Lussemburgo hanno un quoziente più basso. Non solo, ma è anche cresciuta la povertà, soprattutto nel Mezzogiorno. Un Paese di poveri e vecchi.

Quella della denatalità in Italia non è uno dei problemi è «il» problema. Purtroppo noi italiani, sia dal punto di vista della politica che della classe dirigente siamo malati di miopia, non riusciamo a vedere lontano. Per trovare personaggi all’altezza dobbiamo risalire agli anni del Dopoguerra, con i costituenti e i padri fondatori dell’Europa come De Gasperi o La Pira. Da allora è stato un lento tirare a campare, spostando la notte dei problemi più in là. Il debito pubblico ai massimi storici (2.316 miliardi di euro, il 132,8 per cento del Pil), che peserà sulle prossime generazioni, ne è l’emblema. Sembriamo destinati all’estinzione come dei lemming: le politiche familiari stanno a zero, o quasi, e il valore sociale della famiglia è pochissimo riconosciuto. L’anno prossimo sui banchi di scuola di prima elementare mancheranno all’appello 70 bambini ma noi vogliamo i porti chiusi e i confini con i muri alti e spessi per frenare «l’invasione» degli stranieri. Chi potrà salvarci dall’inverno demografico senza politiche familiari adeguate e nuova immigrazione?

Tutto questo ha ripercussioni sociali ed economiche in ogni ambito del Paese, compreso quello produttivo, naturalmente. Nel corso degli ultimi trent’anni il tasso netto di natalità delle imprese è passato dal tre per cento o più degli ultimi anni 80 all’uno per cento, per poi attestarsi negli ultimi dieci stabilmente sotto allo zero. Vuol dire che nascono meno imprese di quante ne muoiono. Ed è una ovvia conseguenza: perché sono i giovani gli «animal spirits», come direbbe Keynes, che creano nuove imprese, non certo gli anziani, che per forza di cose hanno una visione conservatrice anche in ambito aziendale a parte le dovute eccezioni. E anche i comparti dei servizi che sembravano crescere negli anni 90, hanno invertito la rotta nell’ultimo decennio senza apprezzabili ripensamenti. Qualcuno vuol fare qualcosa?

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