Storie in Humanitas Gavazzeni:
«Mamma e moglie. Ora solo medico»

Nell’ospedale Humanitas Gavazzeni la vita è cambiata per tutto il personale. «Affrontiamo qualcosa che difficilmente riusciamo a prevedere».

La vita è cambiata per tutti, anche per chi sta al fronte della battaglia. Lo spiega in poche parole Valentina Camozzini, fisiatra di Humanitas Gavazzeni, ospedale che da oltre un mese è stato convertito a centro Covid, con un grandissimo sforzo logistico e umano, in cui anche lei è stata coinvolta per aiutare le centinaia di pazienti ricoverati.

«Sono mamma di tre bimbi e medico appassionato del proprio lavoro. La mia routine prima della pandemia era fatta di risvegli a casa, visetti coi segni del cuscino, urla, risate e biscotti. E di tanti sorrisi. Poi in ospedale sono arrivate mascherine e protezioni, finché di visibile è rimasta solo una fessura ad altezza occhi, coperta dalla visiera di plastica. Ed è arrivata la distanza fisica come argine al contagio, con il conseguente distacco dalla mia famiglia per non farli ammalare. Ero una mamma, ero una moglie. Ora sono solo un medico che umilmente cerca di combattere questa guerra con le armi che ha a disposizione. Sono onorata di poter aiutare pazienti che mi tendono la mano, soli nella desolazione di chi non riesce nemmeno a capire cosa sia successo. Ogni giorno sono esattamente dove voglio essere, a condividere con i miei colleghi la fessura di sguardi che è tutto quello a cui possiamo aggrapparci in questo momento».

Rispetto alla distanza dalla famiglia commenta: «Spero solo di tornare ad essere ciò che ero: una mamma, moglie e donna che va al lavoro togliendosi pezzetti di biscotti dai vestiti, grata per quei sorrisi che in questo periodo vedo una volta a settimana da sotto il balcone».

Come la sua, tante altre storie di medici e infermieri coraggiosi, perché il nemico è subdolo. Lo sa bene Bruno Passaretti, responsabile della cardiologia riabilitativa di Humanitas Gavazzeni, che quel virus - spiega - se l’è sentito addosso, «fortunatamente in una forma non grave, che mi ha permesso di curarmi a casa. Sono rientrato da pochi giorni, dopo il doppio tampone negativo, e ho voluto andare nei reparti per dare il cambio ai colleghi. Il ritorno al lavoro è stato caratterizzato da una sensazione di inadeguatezza. L’ospedale è totalmente diverso da come l’avevo lasciato, ora è un ospedale da trincea, quasi militare. Trattiamo pazienti tutti uguali ma diversi l’uno dall’altro, la situazione ci ha spinti a lavorare assieme dando contributi diversi secondo le nostre specializzazioni; forse singolarmente siamo inadeguati di fronte a questo nemico sconosciuto, ma lottando tutti assieme diventiamo adeguati».

E poi c’è chi dalla sala operatoria è passato altrove, perché con le attività chirurgiche ferme da fine febbraio per liberare preziosi posti letto dedicati all’emergenza, anche i chirurghi hanno visto modificato il loro normale modo di lavorare. Simone Beretta, classe 1983, papà di un bambino di 2 anni, fino a febbraio stava in sala operatoria, in ambulatorio e in reparto. «Siamo abituati a lavorare con una routine specifica – spiega -, fatta di gesti precisi e organizzazione mentale e, perché no, piccoli riti scaramantici a cui tutti siamo affezionati. Mi sono trovato, con la squadra di colleghi a cui appartengo, ad affrontare qualcosa che è difficilmente prevedibile. Abbiamo dovuto imparare velocemente, senza dimenticare di mantenere un approccio scientifico anche in un contesto di emergenza, che è ciò che ci permette di capire qualcosa di più sulle modalità di aggressione all’organismo operate dal virus».

Un modo di lavorare nuovo, che coinvolge lo sguardo: «In sala operatoria saluti il paziente, lo tranquillizzi e poi ci riparli al suo risveglio – continua Simone Beretta -. In Pronto Soccorso, dove stiamo prestando servizio, incontri persone che faticano a respirare, ti guardano e cercano conforto con lo sguardo perché non riescono a parlare».

E così il dottore si è inventato un modo per restare se stesso, raccontando con il sorriso, sui social, questo nuovo mondo fatto di protezioni scomode, solidarietà tra colleghi e turni lunghi. La leggerezza come arma per restare umani, con quel sorriso che torneremo a mostrare a tutti, senza paura e con più consapevolezza, quando questa emergenza sarà passata.

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