Tre interventi alla testa per affrontare
la sindrome. «Ora ogni giorno è un dono»

La storia di Elena Codreanu. Moldava trasferita a Bergamo, qui ha trovato la forza di lottare contro la malattia rara.

«MoyaMoya» in giapponese vuol dire nuvola di fumo: così appaiono ai raggi X, infatti, i piccoli vasi sanguigni del cervello nelle persone colpite da questa rara sindrome. È un’immagine che descrive bene anche la fatica e lo smarrimento di chi deve convivere con la malattia, che porta a una progressiva occlusione delle arterie cerebrali: le statistiche dicono che in Italia riguarda 0,19 casi su 100 mila abitanti, numeri asettici che non danno conto della paura e del dolore dei pazienti di fronte a un nemico così temibile.

Nella vita di Elena Codreanu, 34 anni, è arrivata come un cumulonembo cupo e minaccioso, ha riempito la sua strada di ombre, ma non è riuscita a cancellare la sua voglia di vivere.

Qualche anno fa, nel 2014, si è trovata sull’orlo dell’abisso: «Mi avevano detto - ricorda con commozione - che non c’era più niente da fare e che potevo tornare a casa per preparare il mio funerale». Poi, però, ha incontrato Andrea Lanterna, neurologo dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, centro di eccellenza per la cura di questa patologia, e l’associazione Amici di MoyaMoya, che ha sede a Scanzorosciate ma accoglie e assiste pazienti di tutta Italia (www.amicidelmoyamoya.org). «Mi hanno salvato la vita», sorride Elena.

Originaria della Moldavia, Elena è arrivata in Italia quattordici anni fa: «Volevo iscrivermi alla Facoltà di medicina - racconta - ma le tasse universitarie erano molto elevate. Per poterle sostenere avevo pensato di venire a lavorare per un anno o due in Italia e poi tornare per riprendere gli studi. Alla fine, però, sono rimasta qui».

Fin da piccola aveva sofferto di emicranie: «Nessuno, però - spiega - era riuscito a individuarne la causa. Avevo anche ischemie transitorie di cui non si comprendeva l’origine. Quando mi sottoponevano a un encefalogramma le mie condizioni peggioravano e dovevano sempre ricoverarmi in terapia intensiva per un paio di giorni». All’improvviso, però, quando Elena aveva diciotto anni, questi disturbi erano svaniti: «Credevo di essere guarita. Non mi sentivo più malata e fragile e speravo che questi episodi, ormai, appartenessero al passato». Si era quindi trasferita in Italia, a Vicenza, con la sorella, e aveva trovato lavoro in una ditta che si occupava di pulizie industriali.

«Sono sempre stata coscienziosa e responsabile, ho cercato di evitare assenze per motivi banali, perciò quando è arrivata la prima crisi non ho capito quanto fosse grave e sono uscita per andare comunque a lavorare. Avevo mal di testa e un braccio molto intorpidito e avvertivo un dolore al petto. Mi sono rivolta a una farmacia pensando di poter alleviare i sintomi con un analgesico, ma il medico mi ha suggerito di recarmi subito al pronto soccorso».

Quei sintomi, infatti, sembravano annunciare un infarto. Col passare del tempo, però, la situazione si è sviluppata in modo imprevedibile: «Mentre aspettavo che mi visitassero, un braccio è diventato completamente inerte, non riuscivo più a muoverlo». Data la gravità delle sue condizioni, Elena è stata subito trasferita nel reparto di Neurologia: «Sono stata fortunata - ricorda - ho incontrato un medico competente che ha avuto subito il sospetto che potesse trattarsi di quella sindrome rara e quantomeno aveva un’idea di possibili terapie da adottare, e per di più conosceva il dottor Lanterna: quando si è reso conto che potevo essere affetta da MoyaMoya l’ha chiamato subito per un consulto».

Nel frattempo Elena è stata sottoposta ad angiografia, e peggiorava velocemente: a quel punto riusciva a muovere soltanto la testa. Elena era affranta e disperata, ma seguendo le terapie indicate dal dottor Lanterna pian piano ha incominciato a riprendersi: «Sono rimasta in ospedale per un mese. Mi sembrava un miracolo poter di nuovo muovere gli arti, ma il neurologo mi ha detto che non sarei riuscita a migliorare stabilmente senza subire un intervento di bypass cerebrale per ripristinare la circolazione, danneggiata dalla malattia. All’inizio non ne volevo sapere: ero atterrita all’idea che qualcuno potesse aprire la mia testa, temevo gli effetti collaterali. Il dottor Lanterna, però, ha preso molto a cuore il mio caso».

Elena ricorda di aver trascorso un’intera giornata al telefono con lui, proprio alla vigilia di Natale: «Mi ha spiegato nel dettaglio le procedure dell’intervento senza nascondermi i rischi, ma facendomi capire che eseguirlo mi avrebbe offerto una nuova speranza di vita. Alla fine ho detto di sì soprattutto perché mi ha colpito la straordinaria umanità di questo medico, disposto a spendere ore al telefono con me per rassicurarmi, per di più in una giornata festiva».

Uno degli enigmi di Turandot, la principessa di ghiaccio dell’opera di Giacomo Puccini, riguarda la speranza, «un fantasma iridescente», che «svanisce con l’aurora per rinascere nel cuore», e «Ogni notte nasce e ogni giorno muore». Elena ne ha avvertito in modo forte la presenza nella sua stanza quando è stata ricoverata in ospedale per sottoporsi all’operazione. «Avevo lunghissimi capelli biondi - racconta - e quando il dottor Lanterna mi ha detto che avrebbe dovuto tagliarmeli con stile “MoyaMoya”, rasandoli tutti da una parte, mi sono fatta dare il rasoio e li ho tagliati da sola, lasciando la mia testa completamente nuda. In quel momento ho scoperto nel mio cuore un coraggio che non avrei mai sospettato di avere. Ho un carattere forte, sono tenace, di fronte a ogni difficoltà della vita ho sempre cercato di arrangiarmi da sola, dopo ogni caduta ho cercato di rialzarmi e di non mostrare mai il dolore agli altri. Quella volta però è stato difficile, l’intervento mi ha messo alla prova». È durato dieci ore: quando si è svegliata Elena ha provato prima di tutto a muovere gambe e braccia, poi, confortata dai buoni risultati, ha chiesto carta e penna per vedere se riusciva ancora a scrivere: «Ho trascorso la prima notte dopo il risveglio parlando da sola: ho recitato tutte le poesie che mi ricordavo, per mettere alla prova il mio cervello. Poi mi sono impegnata al massimo per reagire e riprendere le forze. Dopo essere arrivata sull’orlo della morte ho trovato con grande gioia la mia possibilità di rinascita».

Due settimane dopo ha ricominciato a lavorare. «Tornavo a Bergamo per i controlli e incontravo gli amici dell’associazione Moya Moya, che nel periodo del ricovero in ospedale mi sono stati molto vicini, hanno trovato un posto per ospitare mia sorella in modo che potesse stare con me, mi hanno sostenuto con il loro affetto».

Poco tempo dopo Elena ha dovuto ripetere l’esperienza, sottoponendosi a un secondo intervento: «È stato un momento difficile, il mio compagno mi ha lasciato, da sola non riuscivo più a pagare l’affitto e sono caduta in depressione. Sono arrivata a pensare di farla finita, mi hanno aiutato moltissimo Giusi Rossi, presidente dell’associazione Amici del Moyamoya onlus, e il dottor Lanterna. Sono stati loro a consigliarmi di trasferirmi a Bergamo per poter essere vicina all’ospedale e proseguire terapie e controlli con regolarità e in modo più semplice. Così alla fine mi sono decisa, vivo in città da qualche anno. Per un po’ ho lavorato per una onlus di trapiantati di fegato, che mi aveva fornito anche un alloggio. È stata una bellissima esperienza e mi ha aiutato ad ambientarmi in un posto completamente nuovo».

Nel 2017 la malattia ha allungato di nuovo i suoi tentacoli: «Ho ricominciato ad avere problemi a una mano, sentivo strani formicolii e avevo difficoltà di movimento. L’associazione però proprio in quei giorni aveva organizzato un viaggio a Roma per partecipare a un’udienza del Papa e non ho voluto rinunciare. Ho nascosto il mio disagio, ridevo e scherzavo così le volontarie non si sono rese conto subito che stavo male, nel frattempo però le mie analisi avevano dato l’esito che temevo. Quando sono tornata il dottor Lanterna mi ha avvisato che avrei dovuto affrontare la terza operazione. Questa volta non l’ho detto a nessuno, non volevo creare ansia ai miei genitori lontani».

Le conseguenze sono state più pesanti: «Non sono riuscita a camminare per un bel po’, ma non mi sono arresa. Mi è cresciuta nel cuore una grande forza, non ho più voluto essere quella di prima, ce l’ho messa tutta per ricominciare e ci sono riuscita. Mi sono impegnata sempre di più nell’associazione amici di MoyaMoya, anche come volontaria. Ho capito che il sostegno di un’associazione è davvero importante per chi è malato e fragile come me. Ho imparato che ogni giorno è un dono, mi alzo al mattino e sono grata per esserci riuscita. Soffro di terribili emicranie, ma cerco di sopportarle e di continuare le mie attività quotidiane. Ho svolto diversi lavori, come cameriera in una pizzeria e poi in un bar dell’aeroporto, ma non ho detto mai a nessuno della mia malattia, per timore di essere messa da parte. L’ultimo contratto era a tempo determinato e si è chiuso da poco a causa del covid-19, ora purtroppo sono disoccupata ma spero di poter trovare presto una nuova occupazione. Non ho mai chiesto aiuti economici, ho sempre cercato di lavorare e sostenere le mie spese da sola. Nel frattempo partecipo sempre alle attività dell’associazione perché aver attraversato così tanta sofferenza ha suscitato in me il desiderio di poter aiutare altre persone in difficoltà. Il covid purtroppo ha messo tutto in pausa, anche le raccolte di fondi, speriamo che si possa riprendere presto perché ci sono tanti malati che hanno bisogno d’aiuto. Sono l’unica fra i pazienti che conosco ad aver subito tre interventi e altrettanti bypass. Mi guardo allo specchio e vedo le mie cicatrici, ma vado avanti lo stesso. Agli altri pazienti dico che devono avere coraggio, perché non si può mai lasciarsi andare».

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