«Virus, prepariamoci già ora al futuro
Nei prossimi anni ne arriveranno altri»

Luca Lorini, direttore dell’Unità di Anestesia e Rianimazione 2 del «Papa Giovanni XXIII», parla della sua lotta al Covid-19.

Formazione in campo in ospedale: «115 anestesisti, 400 infermieri». Luca Lorini, laureato e specializzato in Anestesia e Rianimazione a Pavia, da 18 anni (non pochi) guida l’Unità di Anestesia e rianimazione 2 del Papa Giovanni XXIII. Quello che in inglese – senza nulla di mistico – si definisce come un «resuscitation team»: diciamo che la sua squadra si occupa di riportare «di qua» esseri umani già ampiamente avviati «di là».

Nel pieno della tempesta covid, tra marzo e aprile, le Terapie intensive degli ospedali sono state il fronte della guerra. E quella dell’Ospedale Papa Giovanni è stata l’avamposto della prima linea. Una valle di lacrime, scese silenziose, in mezzo al rumore binario, ai tracciati e ai numeri delle macchine respiratorie; ma anche un luogo di sorrisi, di gesti umanissimi che hanno attraversato quel mare livido con una luce di speranza, clinica e non solo.

La prima linea è il luogo in cui di solito si vede più da vicino e meglio il nemico, ma dove anche si provano e si trovano le soluzioni per farlo prima indietreggiare di qualche passo, e poi alla lunga sconfiggerlo. Dall’8 luglio - 137 giorni dopo il primo ricovero – in quelle dolorose stanze per più di due mesi non c’erano più stati malati di Covid. Ieri ne è tornato uno.

Già ad aprile lei aveva fatto una sottolineatura importante sui numeri che ogni sera osserviamo con ansia: quello da tener d’occhio è, purtroppo, proprio il numero dei morti, mentre gli infettati variano molto in proporzione ai tamponi che vengono fatti.

«Sì, certo: adesso lo dicono tanti, sei mesi fa meno. I due numeri solidi in effetti sono quello dei morti, che ci dice quanto è grave la malattia nella popolazione: se muoiono 100 persone al giorno è grave 100, se muore 1 persona al giorno è grave 1, su questo non c’è discussione, purtroppo è il dato più solido che c’è. Il secondo è il numero di persone che hanno bisogno dell’ospedale: ci dice quanta gente sviluppa la malattia. Le categorie sono tre: quelli che hanno il tampone positivo ma non hanno la malattia (gli asintomatici), quelli che hanno il tampone positivo e la malattia, quelli che hanno il Covid in forma grave».

Tutti questi asintomatici che vediamo ora, quindi, c’erano anche prima ma li intercettavamo meno?

«È proprio così. Noi oggi sappiamo che ogni giorno la percentuale dei positivi rispetto ai tamponi che facciamo è intorno all’1,5%: se facciamo 100 mila tamponi troviamo 1500 persone infette; se facciamo 1 milione di tamponi ne troviamo 15 mila. Se potessimo controllare 60 milioni di persone, ovvero tutta la popolazione italiana, troveremmo 900 mila positivi. Io vorrei poter fare 60 milioni di tamponi tutte le mattine, saprei esattamente di cosa stiamo parlando, ogni giorno. Non potendolo fare, quel che conta è quanta gente viene in ospedale o si ammala - oggi magari si ammala poco - e quanta è grave e ha bisogno della rianimazione. Questi sono numeri sicuri».

Un’altra cosa che lei ha detto, mi pare con molta lealtà, è che siete stati sorpresi dalla forza del Covid.

«Sì, l’Italia è stata in assoluto il primo Paese occidentale a essere colpito in maniera così veemente, e Bergamo è stata la provincia che ha preso questa ondata prima di tutti. Ha avuto la forza di affrontarla come sanno fare i bergamaschi, e ha avuto anche il coraggio di dire che questo virus era molto peggio di quello che leggevamo dappertutto».

Autorevoli professionisti parlavano di una influenza…

«E invece in ospedale vedevamo che era devastante, che faceva malissimo, uccideva le persone. Che il numero dei contagiati era più alto di quello che si diceva. Già a metà marzo io dissi ai microfoni della Rai che quei numeri erano farlocchi e andavano moltiplicati per 10: i numeri ufficiali dicevano che a Bergamo avevamo 10 mila positivi, io ho detto subito che ne stimavo già 100 mila, cosa che poi è risultata del tutto vera».

Noi scrivevamo su «L’Eco» il 18 marzo: «La Bergamasca pensa di avere oggi 4 mila contagiati, potrebbe averne invece (compresi quelli asintomatici) già da 100 a 200 mila». E dall’inizio di aprile abbiamo cominciato a dare un’immagine dell’attacco del virus molto più verosimile proprio basandoci sull’analisi del numero reale dei morti, molto superiore a quelli ufficiali.

«Per lavorare bene bisogna capire le cose un po’ prima, e in questo Bergamo è stata davanti all’Italia. E lo ha detto al mondo. Qualcuno ci ha ascoltato - ci hanno mandato poi i video ringraziandoci per aver salvato, con quegli allarmi, migliaia di persone - e qualcuno meno: americani e inglesi non hanno capito».

Strano, di solito gli anglosassoni sono così pragmatici...

«Purtroppo dipende da chi comanda: Boris Johnson si è inventato l’immunità di gregge la prima settimana, dopo 100 mila feriti e morti ed essersi ammalato anche lui è tornato sui suoi passi. Anche Donald Trump quando ha visto le bare nelle fosse comuni a New York».

Un’altra cosa che lei ha detto subito è che la Cina non ci ha passato tutte le informazioni sul Covid.

«Ogni tanto qualcuno si alza e vorrebbe una dittatura. Non ha capito che una democrazia, con tutti i limiti che ha, ha un vantaggio importantissimo: una dittatura nasconde i morti, nasconde i processi, nasconde le informazioni scomode, il contrario di quello che si deve fare in un mondo moderno. L’unica cosa che mi stupisce è che, con tutti i super-pensatori che abbiamo, sia stato un povero primario di provincia a dover dire al mondo, durante la veglia di Pasqua a Porta a porta, che i cinesi non ci hanno detto tutta la verità. La gente che è deputata a fare questo non lo ha detto. Questo ci deve far riflettere».

Oggi siamo più capaci di curare il Covid?

«La terapia che si somministra a un paziente, se lei la paragona ai protocolli di metà marzo, è praticamente la stessa».

Una strada l’avete trovata abbastanza presto.

«L’unica strada possibile in attesa del vaccino. Compreso il plasma: siamo stati i primi ad applicare anche quella terapia».

Qualcuno è andato avanti per settimane a dire che le Terapie intensive aggiuntive alla Fiera di Bergamo o a quella di Milano erano state uno spreco di soldi. Dobbiamo chiuderle?

«Non bisogna avere cognizione medica, basta essere delle persone sensate per capirlo. Sappiamo che finché non avremo il vaccino dovremo convivere con questo virus. Che cosa deciderà di fare? Mutare, diventare più buono? Meno buono? Subirà le mutazioni dell’umidità e delle temperature? Queste cose non sono certe. L’unica cosa che sappiamo è che il virus sarà tra di noi ancora lungo. Quindi sarebbe una pazzia farsi trovare impreparati come 7 mesi fa. Oggi abbiamo più risorse, più posti-letto, più medici, più mascherine, più respiratori. Quelle strutture lasciamole lì per ora. In ogni caso il problema, credetemi, non sono le Terapie intensive, il problema è gestire bene il territorio».

Gli ospedali hanno funzionato.

«In modo fantastico, io credo: siamo stati i migliori al mondo. Bisogna cominciare a dirlo. Io sono bergamasco però fino a un certo punto, sono stato troppo in giro per non aver fatto tesoro di certe esperienze».

La difficoltà grave è stata, nelle prime settimane, il sovraffollamento negli ospedali e la confusione che si è creata?

«Quando un traghetto parte per una traversata, si informa di come sarà il mare, forza 2, forza 3… Il giorno 23 febbraio noi non avevamo queste informazioni. E intendo noi dottori, amministratori, politici, scienziati, lavoratori: nessuno sapeva che acque stava andando ad attraversare. Non credo che avremmo potuto fare di meglio».

Che idea si è fatto di questo virus?

«Io curo da molti anni insufficienze respiratorie gravi che colpiscono i polmoni - si chiamano Ards -, nelle terapie intensive sono quelle che registrano la mortalità più pesante: mediamente il 40%. Questo tipo di pazienti noi li curiamo a centinaia, da decenni: nessuna Ards si è mai comportata come quella del Covid. Nessuna. Qualunque cosa ci fosse nel polmone, virus o batterio, o fungo, la modalità di comportamento era standardizzata. Questo virus ha fatto da subito una cosa diversa. Che cosa vuol dire? Che è un virus di laboratorio? Nessuno di noi può dirlo. Però “in natura” una cosa così noi non l’avevamo mai vista. Quindi per me il forte sospetto esiste. Quante prove ho? Zero».

Negli ultimi 15 anni erano uscite molte inchieste e romanzi sui virus: un allarme tra gli esperti esisteva da tempo?

«Da Bill Gates in giù, sì, tanti hanno manifestato questi timori. Pensi a Hollywood: ha sempre fatto dei film in cui si parlava della Luna quando la Luna non sembrava raggiungibile. Nel 1995 è uscito il famoso film “Virus letale” con Dustin Hoffmann: quando Hollywood si muove, evidentemente ha delle informazioni, che poi vengono romanzate...».

Anche se supereremo piano piano il Covid-19, dovremo mantenere una stretta vigilanza?

«Questo è importantissimo. Io ho sempre una grande discrezione nel parlare di morti, per me non sono 35 mila quelli di Covid: un morto è uno, due morti sono due, ognuno è una sconfitta personale… Però ogni anno l’Italia perde 650 mila persone: per un matematico il numero dei morti “aggiuntivi” di Covid non è particolarmente significativo, non tocca il 5%».

È un virus relativamente debole, nella storia ce ne sono stati di più «cattivi».

«Se non ci sarà un re-Covid tra ottobre e dicembre, essendo già morti molti anziani, vedrà che nei prossimi mesi moriranno meno persone, e alla fine quelli in più del 2020 saranno meno di 35 mila».

Però c’è stato un enorme allarme sociale.

«Se la nostra risposta non fosse stata molto seria avremmo gli stessi morti del Brasile. Se avessimo fatto i “negazionisti”, per intenderci, staremmo parlando oggi di 300 mila morti: e 300 su 650 mila comincia essere un altro numero. Grandi, drammatiche infezioni le abbiano affrontate già tante volte nei secoli, e le affronteremo sempre di più, questo è certo. Io mi auguro che la prossima volta sia fra trent’anni e che se ne occupi qualcun altro, però non c’è dubbio che vedremo nuovi virus. L’insegnamento che il Covid-19 ci deve lasciare è questo: prepariamoci a quello che si chiamerà superCovid-2066».

Sul piano personale, che esperienza è stata per lei?

«Penso di non aver mai imparato così tante cose in così poco tempo: questi mesi sono stati il periodo più ricco - anche di cose brutte, di esperienze dure - che io abbia mai vissuto e che potessi immaginare. Tra marzo e l’inizio di maggio, in 70 giorni ho imparato di più che in trent’anni. Non tanto di medicina, quella purtroppo si deve imparare prima, non quando c’è la tempesta. Che sia il Tour de France o la Champions League, le finali le vince chi si è preparato per tempo. E poi ho imparato che il “made in Bergamo” oggi nel mondo è sinonimo di serietà, efficienza, efficacia. Noi lo sapevamo già, ma penso che il mondo in questa drammatica occasione l’abbia capito, e questo “brand” dovrebbe essere per noi qualcosa di molto importante».

Gli errori da non fare di qui a Natale.

«Li sintetizzerei in un’unica frase: dobbiamo preparare il futuro. Non possiamo aspettare che arrivi. Sfruttando quello che abbiamo imparato in questi mesi: ciò in cui siamo bravi lo dobbiamo mantenere, cioè in cui non siamo bravi dobbiamo rafforzarlo».

E dobbiamo farlo adesso.

«Ieri».

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