«Sulla crisi climatica l’Italia agisce solo nell’emergenza»

L'INTERVISTA. L’ambiente è una grande questione politica, anzi istituzionale, perché due anni fa gli articoli 9 e 41 della Costituzione sono stati modificati introducendone la tutela. Eppure, la politica parla ancora poco e male dell’ambiente e, quando lo fa, si divide. Come si può far capire che la crisi ecologica e climatica indotta dall’uomo richiede risposte sempre più urgenti e condivise, in particolare in Italia, più esposta agli eventi estremi?

Ne parliamo con un’esperta, Elisa Palazzi, docente in Fisica del clima presso l’Università di Torino, che sull’ambiente interviene lunedì 26 febbraio (ore 20,45) a Bergamo nell’auditorium del liceo «Mascheroni» per il corso di politica delle Acli provinciali. «Penso che a livello comunicativo sia stato compiuto un bel passo avanti rispetto a un po’ di tempo fa. Scienziate e scienziati ci hanno messo la faccia per provare a rendere fruibili i risultati delle proprie ricerche. Risultati molto solidi, incontrovertibili, proprio perché basati sul metodo scientifico e consolidati nel corso del tempo. Ormai nessuno mette in discussione non solo il surriscaldamento in atto sul nostro pianeta ma anche le cause che l’hanno generato e indotto cambiamenti così rapidi da rendere difficile l’adattamento. Si assiste sempre più spesso anche a scienziate e scienziati che affiancano divulgatori e giornalisti, alla contaminazione con altre discipline e arti, per esempio a teatro accanto a un musicista o a un attore. Ho notato un miglioramento nella qualità e nella raffinatezza del racconto specialistico, arrivando laddove un numero o un grafico non riescono, cioè alle emozioni. Le persone sono diventate molto più consapevoli del problema, perché le evidenze sono empiriche. Si dovrebbe capire perché c’è ancora chi si pone di traverso, quali siano le ragioni del negazionismo, le sue diverse sfumature. Non si tratta più di credere alle previsioni compiute decine di anni fa dagli scienziati su quanto sarebbe accaduto oggi. Gli eventi estremi sono davanti ai nostri occhi, in Italia sempre più frequenti, dalle siccità alle alluvioni. Siamo testimoni del clima che sta cambiando, validiamo con la nostra esperienza i dati scientifici, capendo che il problema è grave».

«La radice delle proteste degli agricoltori non è diversa da quella di chi manifesta per il clima: garantirsi un futuro»

Ma in Italia ce ne accorgiamo proprio solo quando avvengono gli eventi estremi con vittime, come in Emilia-Romagna e in Toscana.

«Sì, ma il cambiamento climatico non è rilevante solo per gli eventi estremi. Ci sono anche le manifestazioni più lente, come l’innalzamento del livello dei mari che spinge alcune popolazioni a migrare. La fusione dei ghiacciai, che più avanti avrà come conseguenza la non disponibilità di acqua dolce. La non presenza al suolo in inverno di neve che fonde in estate ci darà meno acqua per irrigare, bere, produrre energia. Fenomeni percepiti in Italia come meno urgenti perché più lenti rispetto all’impatto incisivo di un’alluvione che distrugge le case o di una siccità che si ripercuote sull’agricoltura e sui prezzi del mercato alimentare».

«L’Italia deve mantenere gli impegni assunti a ridurre le emissioni entro il 2030 e ad azzerarle nel 2050»

Le grandi manifestazioni giovanili del 2019 avevano offerto una spinta storica nella direzione di politiche più coraggiose per la tutela dell’ambiente, come il Green Deal europeo, diventato ora il capro espiatorio delle proteste degli agricoltori in tutta Europa.

«La radice delle proteste degli agricoltori, se si indaga con attenzione, non è diversa da quella di chi manifesta per il clima: garantirsi un futuro in cui si possa vivere bene, ci sia equità, ci sia possibilità di guadagno dalle proprie attività. Non ci si rende conto che, se si cercasse di risolvere la crisi climatica, si riuscirebbe a prevenire molti problemi in settori come l’agricoltura o il turismo invernale. In Italia, dal punto di vista politico, non c’è il senso della prevenzione, si agisce sempre nell’emergenza. Credo che sia sotto gli occhi di tutti. Il Covid è stato un esempio clamoroso: ci si è trovati impreparati di fronte a qualcosa che era previsto. In un mondo dove la temperatura media aumenta, ci aspettiamo un incremento di determinati fenomeni, anche se non sappiamo prevedere la località e il giorno precisi in cui avverranno, perché c’è un’incertezza legata agli aspetti complessi del clima. Però bisogna prepararsi a saper gestire questi eventi. Ci si prepara meglio se si riduce, allo stesso tempo, la causa che li sta generando. Non abbiamo ancora capito che la mitigazione e l’adattamento sono due alleati preziosi. Se ci si impegna alla mitigazione nei contesti internazionali, a ridurre le emissioni entro il 2030 e ad azzerarle nel 2050, non dovrebbe essere solo una dichiarazione di facciata: dovrebbero seguire le azioni. Se si approva finalmente un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, che prevede circa 360 azioni in diversi settori, bisogna impegnarsi immediatamente per trovare i fondi e attuarle, creando la struttura di governance. Altrimenti restano solo parole di un Piano bellissimo sulla carta, ma inutile se non messo in pratica. È abbastanza palese che nella nostra politica manchi anche un po’ di presa di coscienza della situazione. Se non si riempiono di contenuti gli impegni assunti a livello internazionale, la società civile deve far capire che se ne accorge e farsi sentire perché è consapevole dell’importanza dell’azione».

«Bisogna trovare immediatamente i fondi per mettere in pratica il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici»

Nel 2023, finito con una media di +1,48°C, è caduto ogni record di surriscaldamento globale. Il 2024 è sulla stessa strada: a gennaio la media è stata di +1,66°C. L’obiettivo migliore dell’Accordo di Parigi, restare entro 1,5 gradi, è ormai irraggiungibile?

«Il grado e mezzo resta un limite possibile, anche se molto difficile da raggiungere, ancor più se si attende, disquisendo sulla possibilità di mantenerlo o no mentre non si fa nulla. Oppure pretendendo che i sistemi di energia rinnovabile siano perfetti, altrimenti non si possono usare, mentre continuiamo ad alimentare il problema con i combustibili fossili. Abbiamo già una varietà di possibilità da introdurre per provare a restare entro il grado e mezzo. Se poi saranno 1,6 o 1,7, va bene lo stesso, mentre non saprei descrivere un mondo con tre gradi in più entro fine secolo. Con più 1,5, 1,6 gli effetti più dannosi del cambiamento climatico si possono contenere con un adeguato adattamento. La mitigazione, cioè il taglio delle emissioni, mira proprio a rendere nel mondo futuro più agevole l’adattamento alle problematiche che già si cominciano a vedere oggi. L’obiettivo non è tornare ai livelli preindustriali, ma poter vivere con uno stato di benessere auspicabile per tutti».

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