Afghanistan, il patto
col nemico per la pace

E così ce ne andiamo. Abbandoniamo l’Afghanistan, ci ritiriamo. E prima di farlo gli Usa, azionista di maggioranza della lunga spedizione cominciata con l’attacco del 2001, trattano in forma ufficiale con i talebani nell’ospitale Qatar. È, questo, il segnale più evidente della generale stanchezza che circonda la causa afghana: terroristi ieri perché complici di Osama bin Laden e terroristi oggi, perché continuano a far strage con bombe e kamikaze, i talebani si trovano di colpo nobilitati al rango di nemico ufficiale, quasi fossero già uno Stato. E dettano condizioni come se avessero vinto. Per sedersi al tavolo e parlare di pace hanno preteso che l’alleanza occidentale si impegnasse a un ritiro completo delle proprie truppe. E hanno chiesto che il Governo afghano, comunque certificato da un voto (anche se non il più limpido dei voti) fosse escluso dalle trattative. Inutile dire che hanno ottenuto tutto.

Stanchezza, dicevamo. I numeri parlano chiaro. Siamo in Afghanistan dal 2001, nel frattempo sono morti più di 120 mila afghani (dei quali almeno 30 mila civili inermi), 3.500 soldati Nato (dei quali 53 italiani), 1.700 contractor delle più varie nazionalità, 300 cooperanti disarmati, in pratica tutti massacrati da quelli con cui ora parliamo di pace. Per la missione militare, con annessi e connessi, sono stati spesi mille miliardi di dollari (7,5 dalla sola Italia). È stato calcolato che gli Usa, per tenere un solo marine in Afghanistan per un anno, anche se confinato dentro una base e mai impegnato in combattimento, devono investire 4 milioni di dollari. Il tutto per ritrovarsi, oggi, con i talebani che controllano una porzione del Paese più vasta di quella che controllavano nel 2001. Che continuano a far coltivare oppio e a smerciare droga. Che nelle zone dove riescono a dominare non si mostrano molto diversi dai loro padri che dominavano vent’anni fa.

A tutto questo si aggiunge la nuova strategia del principale protagonista, gli Usa. L’America di Donald Trump sta dismettendo tutte le imprese che paiono troppo costose o inutili e l’Afghanistan (pochi giorni dopo l’abbandono dei curdi del Rojava nel territorio siriano) ha tutte le caratteristiche per rientrare in questa categoria. Trump si sta arroccando su poche alleanze strategiche (Israele e Arabia Saudita in Medio Oriente in funzione anti-Iran, il Giappone del riarmo in Asia in funzione anti-Cina) e si può ben capire che il Venezuela nel «cortile di casa» gli interessi ora assai più del lontano Afghanistan. E se mollano gli Usa mollano tutti, come si vede da quanto accade nel Governo italiano, che già studia tempi e modi del ritiro. Questa è la sostanza. Le altre polemiche, chi sapeva e chi non era stato informato, attengono alla cucina politica nazionale. E forse alla tradizionale insofferenza dei «politici» verso i «tecnici», con il ministro Moavero nella parte del tecnico che si tiene tutte le deleghe del ministero ai danni dei politici.

Fatti tutti i ragionamenti e tirate tutte le conclusioni, resta il fatto che ce ne andiamo. Come tutti sanno, l’Afghanistan è il Paese che ha saputo respingere Alessandro il Grande, i fucilieri inglesi e gli spetznaz sovietici, se ci ritiriamo siamo in buona compagnia. E come gli altri (ma con più colpa, perché dovremmo almeno conoscere la storia) scontiamo le contraddizioni di un’ambizione quasi impossibile, quella di invadere un Paese e poi convincerlo che l’invasione gli conviene. Ma l’aspetto più terribile dell’intera vicenda è che perdiamo in qualunque caso. Ci ritiriamo (prima o dopo, ma è chiaro che succederà) perché siamo stati sconfitti sul campo. Questo può succedere. Ma ritirandoci tradiamo la promessa implicita che nel 2001, invadendo il Paese, avevamo fatto agli afghani.

Non pensiamo in questo caso alle grandi strategie delle cancellerie, ai piani kolossal della politica internazionale. Alla retorica della democrazia e delle magnifiche sorti e progressive buone per i congressi. Pensiamo a questioni più «banali» ma che, nella loro concretezza, potevano cambiare la vita di milioni di persone. Le vaccinazioni. Le morti per parto, in Afghanistan una piaga come in pochi altri luoghi al mondo. La scuola per i ragazzi e, soprattutto, per le ragazze destinate all’ignoranza perpetua, ai matrimoni combinati con loro ancora bambine e al burqa. Alla diffusione di una cultura che non sia solo quella, per altro assai rispettabile quando non si impone come monopolio, delle scuole coraniche. A tutto questo penseranno, domani, i talebani verniciati di fresco? Permetteranno ad altri di pensarci? Per ora i talebani hanno solo promesso di tenere lontani i terroristi di Al Qaeda e dell’Isis. Cioè, pochi residui amici loro e i miliziani del califfato che sono loro rivali e che già oggi combattono. Pare dunque che ce ne andiamo come siamo arrivati. Senza capire bene che cosa stiamo facendo.

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