Al G7 scelte «di guerra» conseguenze mondiali

Quello di Schloss Elmau, in Germania, è stato a tutti gli effetti un G7 di guerra. In due sensi. Da un lato si è parlato delle ulteriori armi da fornire all’Ucraina. Gli Usa si sono impegnati per altri 7,5 miliardi di dollari e soprattutto hanno accolto le richieste del presidente Zelensky, intervenuto in teleconferenza, annunciando l’acquisto del sistema missilistico norvegese Nasams, capace di colpire a media e lunga gittata e quindi di compensare (almeno così sperano gli ucraini) la superiorità russa nei cieli e nell’artiglieria.

Più in generale, tutti i Paesi del G7 si sono impegnati ad aiutare l’Ucraina a tempo indeterminato, finché ce ne sarà bisogno. E con una guerra che non accenna a calare di intensità, questa pare in effetti la promessa decisiva.

Il G7 in terra di Germania, però, è stato «di guerra» anche in un altro senso. Proprio alla luce di un conflitto che non offre scadenze (e nemmeno speranze di trattativa), l’Occidente più sviluppato ha provato a organizzarsi su un piano di lungo periodo. C’è stato, ovviamente, l’annuncio di nuove e immediate sanzioni, tariffe onerose per 570 beni da esportazione russi e restrizioni per altre 500 figure istituzionali o del mondo degli affari russe che sono state ritenute in qualche modo coinvolte nella produzione bellica, nella conduzione delle operazioni militari o nella sottrazione del grano ucraino. Ma i provvedimenti che davvero contano sono proprio quelli che più trasmettono la sensazione di un impegno di lungo periodo.

Il primo è stato il blocco all’esportazione dell’oro dalla Russia. Il metallo prezioso è stato finora un appoggio importante per l’apprezzamento del rublo e nel complesso per il sostegno al bilancio della Federazione colpita appunto dalle sanzioni. Un altro tentativo, quindi, di sfiancare la resistenza finanziaria del Cremlino. Questa è un’idea che si potrà valutare solo nel medio e lungo periodo, appunto: nell’immediato, restringere l’afflusso dell’oro russo ai mercati internazionali potrebbe farne salire il prezzo, con conseguenze che colpirebbero tutti. Bisogna anche tenere presente che la Russia, con 300 tonnellate estratte ogni anno, è il terzo produttore al mondo ma solo il 13° esportatore. Ovvero, ha ancora molti margini. Aspettiamo e vedremo.

Molto più importante è la decisione di instaurare un price cap al prezzo degli idrocarburi, ovvero di mettere un tetto alla cifra che i Paesi del G7 sono disposti a pagare per il petrolio (e forse anche per il gas) in arrivo dalla Russia. La somma è ancora da stabilire ma ovviamente sarebbe punitiva, almeno rispetto alle quotazioni attuali, per le esportazioni russe e consentirebbe alle economie occidentali di respirare rispetto al costo della vita e all’inflazione. I Paesi del G7 sono certamente in grado di fare blocco: non hanno più la potenza degli anni Novanta, quando rappresentavano il 70% dell’economia planetaria, ma valgono pur sempre intorno al 50%. E poi sono agevolati dalla struttura del mercato mondiale. Circa il 95% del traffico mondiale delle petroliere è assicurato da un’organizzazione con sede a Londra sottoposta alla legislazione europea.

Tutto questo non basta ancora, però, per avere la certezza di raggiungere l’obiettivo, che è quello di prosciugare l’afflusso di denaro fresco verso le casse del Cremlino. Per questo il G7 vara una serie di colloqui con i Paesi produttori del Golfo Persico, che finora non si sono allineati alle sanzioni contro la Russia e non hanno rotto l’alleanza tra la Russia, appunto, e l’Opec. Non solo: molte delle operazioni che la Russia realizzava in Europa ora si stanno spostando verso Dubai. Per esempio, proprio quel commercio dell’oro che aveva la sua prima tradizionale sede in Svizzera. Per questo il cancelliere Scholz, padrone di casa del summit, ha voluto invitare come osservatori anche Indonesia, India, Senegal, Argentina e Sudafrica, nel tentativo molto scoperto di suggerire che la crisi apertasi in Europa ha conseguenze mondiali che come tali devono essere affrontate. Lo dimostra il problema del grano, ma non è l’unico. Mentre cerca di farla finita con il petrolio e il gas russo, l’Europa riavvia le centrali a carbone che aveva giurato di chiudere entro il 2050. E tutto si può dire tranne che effetto serra e protezione dell’ambiente siano questioni che riguardano solo noi.

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