App e privacy
(che ci siamo già giocati)

«Ha la tessera»? Quante volte, alla cassa di un negozio o di un supermercato, ci hanno rivolto questa domanda, per rifilarci una tessera di fidelizzazione? Quelle che poi tu raccogli i punti, i bollini o magari qualche sconto, e loro in cambio raccolgono tutto di te. La tessera non ce l’hai, ti fai ingolosire, la signorina allunga modulo e penna e zac, è fatta. Conviene però riavvolgere il nastro. Perché il negozio è in un’altra città, e per arrivarci hai fatto un pezzo di autostrada, pagando col Telepass che sa dove sei entrato e dove sei uscito. Poi per trovare il negozio ti sei localizzato con un’app per la navigazione satellitare. Magari hai anche pagato il parcheggio con lo smartphone, così eviti la faticosa raccolta degli spicci. Hai pranzato cercando un ristorante sul telefono, su quel sito che guardi sempre e su cui fai anche dettagliate recensioni di quel che hai mangiato. Passeggiando, sei passato sotto qualche decina di telecamere, pubbliche e soprattutto private.

Siccome sei contento della tua gita, fai un bel post sui tuoi profili social, racconti tutti i fatti tuoi e già che ci sei posti anche la tua foto, fiera dell’acquisto appena concluso. Torni indietro e il film si ripete: telecamere, parcheggio, navigatore, viaggio da casello a casello.

Tutto questo fa parte della nostra vita, tutti i giorni. E in tutto questo, la privacy è ormai un concetto che il pensiero non considera. Da quando nel nome della sicurezza nelle città sono arrivati i primi sistemi di videosorveglianza, a Bergamo si parla di circa 15 anni fa, la nostra riservatezza è andata via via riducendosi. Per la sicurezza, certo. Ma anche per la comodità di fare tanto, quasi tutto, da casa col telefono in mano. Un click e ti arriva la pizza. Un click e prenoti un volo per Tokyo, un click e studi il percorso per la corsa di domattina. Che poi farai, geolocalizzato al centimetro. Magari, infine, condividerai tutto sui social.

E tutto questo, di nuovo, per dire con esempi pratici che oggi è ben difficile conservare pezzi considerevoli della nostra riservatezza. E che risulta parecchio bizzarro il dibattito di questi giorni, «contro» la App scelta dal Governo per tracciare i contatti in forma del tutto anonima e consentire così, partendo da un nuovo contagiato, di risalire a tutti coloro che nei giorni precedenti hanno «sfiorato» il soggetto. A Wuhan stanno provando a sbloccare il lockdown anche così. Certo, lì dibattiti non ce ne sono: semplicemente lo si deve fare perché così dice lo Stato.

Da noi si dibatte, e ci mancherebbe. Ma fa particolarmente specie che gli oppositori della App appicchino questi dibattiti proprio sui social network, che per loro natura prendono «qualcosa», se non tutto, di noi, e lo condividono. Tutto quel che è condiviso della nostra vita, per definizione, non è più solo nostro. Quindi si va su Facebook sacrificando quote considerevoli di privacy per protestare contro la App che per aiutarci a salvare la salute mette - o meglio: metterebbe - a rischio la privacy.

Tutto questo ha davvero poco senso: a fronte dell’enorme sacrificio di disciplina fatto da fine febbraio a oggi per arginare il virus, e a fronte del fatto che la privacy è già molto più un concetto accademico che concreto, ecco che parte il coro di dotti distinguo, s’alzano selve di indici ammonitori, s’odono prediche buone per l’era pre Google, pre Facebook, pre telecamere, pre carte di credito, pre Telepass e pre Tutor. Praticamente pre tutto. Fuori dal tempo. Perché la privacy, o quel pochino che ne resta, è sacra, per carità, e la App dovrà funzionare come si deve. Ma qui si tratta di riprenderci quel che il virus ci ha tolto, e di usare la tecnologia per salvarci la vita, non solo per il gusto di ordinare una quattro stagioni dal divano. Usate Immuni, quando ci sarà. Che magari poi una sera torniamo pure in pizzeria.

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