Armi all’Egitto
il vero scandalo

Il 7 agosto scorso il Consiglio dei ministri approvò il decreto interministeriale che ha aumentato lo stipendio del presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Un provvedimento venuto alla luce nelle scorse settimane e che ha generato indignazione in buona parte dell’opinione pubblica, alle prese con tempi grami. Ma il vero scandalo in quella seduta del governo fu la comunicazione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio: annunciò che l’Autorità di vigilanza sul mercato delle armi aveva rilasciato le licenze per vendere e inviare due navi da guerra prodotte da Fincantieri per un valore di 1,2 miliardi di euro.

Del resto l’11 giugno scorso lo stesso Consiglio dei ministri votò a favore del contratto. Sedici giorni dopo, a decisione già presa, una mozione della direzione del Pd mette sull’avviso: «Senza risposte vere su Regeni, l’Italia non ceda armi agli egiziani». Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Di Maio e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini rassicurano che la partita non è ancora chiusa e che può rappresentare semmai una via per trattare e fare progressi sulla vicenda giudiziaria di Giulio Regeni, 28 anni, dottorando dell’Università di Cambridge, rapito il 25 gennaio 2016 al Cairo. Il suo corpo, con segni di tortura, verrà ritrovato il 3 febbraio successivo in un fosso lungo l’autostrada per Alessandria, nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti.

Intanto il 7 febbraio scorso viene arrestato al Cairo Patrick Ziki, 27 anni, ricercatore dell’Università di Bologna appena rientrato dall’Italia e tuttora in un carcere di massima sicurezza, dove è stato torturato e gli sono state chieste informazioni su Regeni. L’elemento d’accusa sono alcuni post su Facebook contro la dittatura, ma su un profilo che sarebbe falso. Però sia Di Maio che Guerini chiedono di non interrompere i rapporti con l’Egitto, «un partner importante per il controllo di zone problematiche come Libia e canale di Suez». Peraltro il regime cairota retto da al-Sisi in Libia era schierato con il generale Khalifa Haftar, l’Italia con il presidente legittimo (ora dimessosi) Fayez al-Sarraj, salvo poi barcamenarci anche col generale e perdendo così credibilità e possibilità di controllo della «quarta sponda» a beneficio di Russia e Turchia, che hanno schierato truppe sul terreno.

Un partner importante: nel luglio 2018 l’Italia ha esportato armi leggere e munizionamenti al Cairo per 2 milioni di euro (fonte Istat) e nel 2019 una partita di elicotteri per 871 milioni, nonostante la legge 185 del 1990, secondo la quale il nostro Paese non può fornire armi a Stati che non rispettano i diritti umani. Ma al-Sisi ci beffeggia pure: ci ha addebitato il costo di 140 milioni di euro per adeguare le due fregate alle esigenze della Marina militare egiziana (inizialmente infatti erano destinate a quella italiana). «Con Roma c’è una collaborazione esemplare» ha detto del resto l’ambasciatore egiziano Hisham Badr dopo la cerimonia in cui tre grandi aziende italiane (Eni, Snam e Saipem) sono entrate nel comitato consultivo del forum che avrà sede al Cairo e si occuperà di rafforzare la cooperazione nell’estrazione del gas dal Mediterraneo.

Tutte queste aperture e i relativi affari non hanno però prodotto progressi sulla vicenda giudiziaria di Regeni. La Procura capitolina a dicembre, quando scadranno i termini dell’indagine preliminare, dovrà decidere in solitudine se chiedere il rinvio a giudizio dei cinque agenti dei servizi segreti egiziani accusati dell’omicidio. I magistrati cairoti non hanno fornito nemmeno i loro indirizzi: la mancata notifica degli atti potrebbe rappresentare un problema per lo svolgimento di un eventuale processo.

Intanto un altro sgarbo è arrivato dall’ambasciata d’Egitto a Roma: si è rifiutata perfino di accogliere le 150 mila firme raccolte per ottenere la scarcerazione di Patrick Zaki. Lui dal carcere ha inviato una lettera alla famiglia, nella quale scrive tra l’altro: «Un giorno tornerò libero, tornerò alla normalità e ancora meglio di prima». Glielo auguriamo di cuore.

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