Arriva l’ondata dell’auto cinese

MONDO. «Qual è il modo più conveniente per comprare una Tesla? Comprarla in Cina». Parola del Financial Times, quotidiano finanziario tra i più letti del pianeta, che ha scelto di partire da questo apparente paradosso per descrivere quanto sta accadendo nel mercato automobilistico cinese.

La scorsa settimana il patron della Casa statunitense di auto elettriche, Elon Musk, ha tagliato per due volte i prezzi del proprio listino per i soli clienti cinesi. Così adesso una vettura Model Y di Tesla in versione «Long range», per esempio, in Cina costa circa 38mila euro, mentre lo stesso modello in Italia (e in tutta Europa) si aggira sui 55mila euro. È la legge della domanda e dell’offerta, spiegano in prima battuta gli analisti. Nell’ex Impero celeste, infatti, si registra un eccesso di capacità dell’industria automobilistica, da qui l’avvio di una guerra dei prezzi e non solo. Basti dire che nel 2019 in Cina erano registrati circa 500 produttori di auto elettriche, le cui prospettive future erano sostenute dalla loro capacità di operare con costi bassi, ma quattro anni dopo almeno 400 di quei marchi hanno chiuso i battenti per l’intensa e spietata concorrenza. Tesla, che nel mercato cinese ha un ruolo da protagonista nel segmento premium, sta dunque lanciando l’ennesima sfida soprattutto a marchi di alta gamma come Bmw e Mercedes.

Tuttavia l’estrema vitalità del mercato automobilistico cinese, soprattutto nell’elettrico, non è un fenomeno confinato all’interno della Grande Muraglia. Nei primi tre mesi dell’anno, la Repubblica popolare cinese è diventato il primo esportatore di veicoli al mondo: con un balzo del 58% dal 2022, ha venduto all’estero 1,07 milioni di veicoli, superando i 954mila esemplari esportati dal Giappone. Le esportazioni sono state alimentate dalla forte domanda globale di vetture elettriche e dalle vendite verso la Russia, e sostenute dal ruolo di produttori non cinesi (come Tesla o Volkswagen) che hanno fatto della Cina una propria base produttiva.

Cosa cambia per noi? L’Europa, in breve, rischia di essere travolta da questa ondata «made in China». Alcuni dati Eurostat dovrebbero suonare come un campanello d’allarme. Nel 2018, l’Unione europea aveva esportato auto verso la Cina per un valore di quasi 18 miliardi di euro, importando da Pechino 320mila vetture per un valore di 460 milioni di euro. Solo quattro anni dopo, l’Ue ha esportato auto verso la Cina per 24 miliardi di euro, importando da Pechino per un valore cresciuto nel frattempo di 20 volte, fino a 9 miliardi di euro. I consumatori iniziano ad accorgersene. Nel primo semestre di quest’anno, le case cinesi si sono aggiudicate l’1,5% delle vendite di nuove auto in Europa; nel caso specifico dell’Italia, la quota di mercato in capo alle case cinesi ha superato il 2%, più che raddoppiata in un solo anno, come evidenzia un’elaborazione dei dati realizzata di recente da Anfia per il Sole 24 Ore. Sui segmenti più innovativi l’avanzata è ancora più rapida: l’8% delle auto elettriche nuove vendute in Europa sono ormai fabbricate da aziende cinesi, nel 2021 eravamo ancora al 4%. E da qui al 2025 gli addetti ai lavori prevedono il lancio in Europa di almeno 11 modelli di massa «made in China».

Pechino punta dunque su prezzi super-competitivi per conquistare il nostro mercato, proprio mentre in Europa «l’auto elettrica è una rivoluzione per ricchi», come ha detto di recente l’italiano Luca De Meo, Ceo di Renault e già pupillo di Sergio Marchionne. De Meo ha sottolineato alcuni svantaggi dell’Ue rispetto alla Cina che controlla materie prime decisive per le batterie e che si è potuta permettere di non rispettare molti standard ambientali sul fronte dell’energia, a cui aggiungere la presenza a Bruxelles di «un gruppo di estremisti dell’elettrico» che non ha voluto contemplare tecnologie alternative per il futuro post motore a scoppio. Senza contare, inoltre, che i nostri produttori pagano un proprio ritardo su innovazione e investimenti.

In definitiva, l’incapacità di reggere alla nuova concorrenza cinese (più o meno leale), insieme ad alcuni limiti auto-inflitti di politica industriale e commerciale, rischiano di ridurre l’Europa al ruolo di «preda», peraltro in un comparto storico della nostra industria, l’automotive, che ancora pesa per il 7% del Pil continentale e che rappresenta il 10% dei posti di lavoro nell’industria manifatturiera.

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