Asia Bibi e Amal
Guerra nell’islam

Cosa accomuna la storia di Asia Bibi, la mamma cristiana condannata a morte per blasfemia nel 2010 in Pakistan, con quella Yamal, la bambina di 7 anni morta venerdì scorso per la carestia che flagella lo Yemen in guerra? Entrambe sono anche vittime del conflitto che da anni si consuma dentro l’islam, che non è un monolite scagliato contro l’Occidente, come vuole un senso comune molto diffuso nelle opinioni pubbliche occidentali. Asia Bibi venne condannata in una vicenda controversa: contadina a giornata, il 14 giugno 2009 ebbe un diverbio con le sue compagne di lavoro musulmane, durante il quale avrebbe offeso Maometto. Denunciata alle autorità, pur negando di aver pronunciato parole blasfeme, fu condannata alla pena capitale.

Quattro giorni fa la donna cristiana è stata assolta dalla Corte Suprema pakistana con parole importanti: «A volte - è scritto nella sentenza di assoluzione - per attuare disegni nefasti, la legge viene manovrata da individui che propongono false accuse di blasfemia. In concreto, dal 1990, 62 persone sono state assassinate come risultato di accuse di blasfemia ancor prima che il loro processo potesse essere concluso secondo la legge». E ancora: «È ironico come in lingua araba il nome dell’appellante, Asia, significhi “peccatrice” ma, nelle circostanze di questo caso, lei sembra essere una persona che, con le parole di Shakespeare nel Re Lear “è più vittima di un peccato che peccatrice”». Il ricorso a un autore laico occidentale da parte della Corte è da rimarcare.

Ma l’assoluzione di Asia Bibi ha generato le proteste dei fondamentalisti in tutto il Pakistan. Il suo avvocato è fuggito a Londra, i membri della Corte Suprema sono stati messi sotto scorta e soprattutto il governo di Islamabad appena eletto, cedendo alla piazza ha autorizzato una revisione della sentenza di proscioglimento: nel frattempo Asia Bibi resta in carcere. In Yemen invece da tre anni si consuma una guerra per procura dalle conseguenze umanitarie tragiche. Si contrappongono da una parte le forze governative sostenute dall’Arabia Saudita (sunnita), dall’altra i ribelli Houthi, spalleggiati dall’Iran (sciita). Non è una guerra solo con risvolti religiosi, ma per stabilire la superiorità regionale delle due potenze. Gli attacchi aerei sauditi recentemente hanno incrementato il numero delle vittime del 164% e il blocco alle importazioni imposto dalla coalizione guidata da Riad impedisce l’ingresso anche di cibo e medicinali. La foto della piccola Amal, realizzata dal premio Pulitzer Tyler Hichs, è diventata il simbolo della sofferenza di un popolo che non ha le tutele di nessuna Grande potenza mondiale.

Secondo un rapporto di «Save the children», ogni giorno in Yemen muoiono 130 minori per fame o malnutrizione grave. Le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme: la carestia è destinata a diffondersi e rischiano di morire fino a 13 milioni di persone. Per fermare questa carneficina l’Onu chiede lo stop dei raid aerei sauditi, responsabili del 51% dei decessi fra i civili, anche bambini. E qui si pone una domanda: perché l’Occidente continua a sostenere l’Arabia Saudita, massacratrice di civili inermi ed esportatrice dell’islam più radicale (la versione wahabita)? Per poter accedere al petrolio di Riad? Per incassare i lauti compensi delle commesse militari? Tra i Paesi esportatori di armi verso i sauditi c’è anche l’Italia (nel pacchetto pure 45 milioni di euro di bombe). Non siamo ovviamente in solitudine: tra gli alleati dei sauditi ci sono anche l’America di Trump e Israele. Ma le armi non sono il solo problema. Vietare l’importazione di cibo per far morire la popolazione yemenita di fame è un’operazione criminale, che richiede una punizione adeguata. L’Europa e gli Usa, che considerano l’immigrazione un’emergenza, cosa hanno da dire su questa pena di morte inflitta a piccole dosi giorno dopo giorno?

© RIPRODUZIONE RISERVATA