Attuare il Pnrr, il ritardo italiano

Italia. A che punto siamo con l’attuazione del Pnrr e con l’utilizzo dell’irripetibile quota di finanziamenti che l’Ue ha messo a disposizione dell’Italia, prima fra tutti i 27 soci europei?

È una domanda scomoda, perché abbiamo trascorso mesi crogiolandoci in quei 200 e passa miliardi piovuti dal cielo sopra Bruxelles, ma dalla poesia del fondo perduto e dei prestiti a tassi irrisori, alla prosa del duro lavoro per non mancare agli impegni, il salto può essere mozzafiato. Per ora, politicamente, ci sono un fatto positivo e uno negativo.Quest’ultimo è aver già rimesso in crisi un pilastro dell’accordo con l’Europa, la politica di concorrenza, per correre dietro alle corporazioni balneari che vogliono mantenere il privilegio di concessioni a vita e a buon mercato. È un pessimo approccio, e riportare al 2024 le scadenze fissate fin dal 2006, che arrogantemente un tempo erano state fatte slittare al 2038 (!) non è un modo serio di approcciarsi alle regole del Ngeu (Next generation Eu). Quello buono è essere (quasi) riusciti a modificare la tempistica e le modalità del piano, cosa che Draghi escludeva per principio. Con fantasia italiana, si è riusciti a mescolare le date del Pnrr (tutto entro fine 2026) e quelle dei fondi tradizionali della Coesione (che scadono nel 2029) e la Commissione ce l’ha data buona.

Beninteso, c’è qualche condizionalità: bisogna associare a questi fondi anche risorse nazionali (dal 15 al 60%) e occorre entro dicembre impegnare tutti i soldi, pena la cancellazione dei finanziamenti, ma il principio è stato fissato. Per quanto riguarda la possibilità di scucire altri miliardi, attingendo a quella quota non utilizzata che è ancora nei forzieri europei, ci sono solo i 2,76 miliardi legati alla crisi energetica, ma il bottino di altri 225 miliardi avanzati perché non voluti da altri Paesi, difficilmente verrà elargito a chi è già in testa alla classifica, e non saranno comunque «gra-tu-i-ti», come direbbe l’ineffabile Conte.

Fin qui, comunque, tutto bene. Il problema è capire se stiamo rispettando le regole fissate per il Pnrr, in particolare quella di fare subito le cose, non solo sulla carta: leggi già pubblicate in Gazzetta Ufficiale, regolamenti diramati, opere inaugurate, appalti assegnati. Secondo l’osservatorio indipendente «Open Polis» siamo indietro e qui per onestà bisogna ammettere che qualche responsabilità il governo Meloni la può dividere con il governo Draghi. Entro il 31 dicembre occorreva aver rispettato le scadenze assegnate per il 2022: 55. Ci hanno detto che erano state rispettate ma a febbraio ben 14 mancano all’appello. E non bazzecole: la cybersicurezza, 327 nuovi centri per l’impiego, almeno un progetto realizzato per ogni distretto sociale a favore dei disabili, un certo numero di posti letto negli alloggi per studenti. Il Governo ha inviato la richiesta di incasso di 14,8 miliardi che riguardano le scadenze del secondo semestre 2022, e Bruxelles pagherà, ma lo scherzetto dei balneari è troppo sfacciato. Dopo la sentenza del Consiglio di Stato anche il Quirinale vigila. Più si va avanti poi, più gli impegni sono onerosi e cogenti, costringono enti come Comuni, Province e Regioni, poco attrezzati, a un superlavoro complesso.

Nel 2023 sono necessari atti concreti, circa un altro centinaio, su grossi interventi sulla scuola e sulle infrastrutture (20 miliardi), ambito nel quale siamo abituati a lentezze bibliche.Eppure, qui ci sono questioni chiave come il rischio idrogeologico o il nodo decisivo dei trasporti ferroviari nel Sud. Il Governo ha già provveduto ad accentrare a Palazzo Chigi le decisioni, e forse poteva farlo prima, ma far lavorare i ministeri non è cosa semplice. Certo che non la Meloni,ma l’Italia intera non può perdere questo appuntamento storico. Francia e Germania, che hanno promosso il Ngeu si sono garantiti senza rumore aiuti di Stato colossali e stanno zitti, ma l’Europa del Nord aspetta solo la conferma dei suoi sospetti sui «soliti» italiani.

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