Autonomie, cosa fare (e cosa no)

Il commento. Passate le elezioni regionali e quindi al riparo dalla propaganda, si dovrebbe parlare - ma seriamente - delle autonomie regionali. Premettiamo che non è cosa eversiva, anzi costituzionale. Non sono in pericolo i valori nazionali: dipende solo dal «come» la si vuol fare. E allora niente ideologie da derby Nord-Sud e molta onestà intellettuale.

Smettiamola di raccontare che sopra il Po tutti saranno più ricchi, e basta barricate vittimiste contro gli egoismi lombardi. È finito il tempo del Vesuvio invitato ad eruttare su Napoli, e anche quello della secessione, che sarebbe stato il guaio peggiore per il Nord del Paese. La questione è ben più complessa e prima ancora di arrivare al «come», ci si dovrebbe chiedere «se» questa riforma è davvero necessaria e prioritaria per i cittadini. Le Regioni funzionano forse meglio dello Stato? Specie dopo pandemia, guerra e crisi ambientale, problemi, tutti, che richiedono istituzioni che vedano un po’ più al di là dei confini del Molise. Uno Stato federale può certo rispondere a queste sfide, ma allora deve esserci un vero, grande, elastico sistema delle autonomie. Non è il caso dell’Italia, e non si può improvvisare.

La fa troppo facile Attilio Fontana, che parla soltanto di trasferimento di risorse dal centro alla periferia: stessi soldi ma gestione più efficace (e chi lo garantisce? I commissari del debito?). Una definizione semplicistica, perché una riforma enorme e seria – di questo parliamo - è impensabile che sia a spesa invariata, come pure proclama la bozza Calderoli. Quando in Italia si fa qualcosa di rilevante le istanze diverse si sovrappongono e si sommano. È il «ma anche», che cerca di mettere d’accordo gli opposti sempre al ribasso. Si fa il reddito di cittadinanza, ma preoccupati dall’immagine del lazzarone sul divano, si violenta il mercato del lavoro. Si fa la guerra, ma non si mandano armi letali. È capitato, in materia di Titolo V, anche alla sinistra, autrice con Bassanini di una captatio verso la Lega, paralizzando per un ventennio i tribunali amministrativi in tema di competenze Stato/Regioni.

Figuriamoci cosa potrà capitare in una materia complessa come l’adeguamento di un sistema istituzionale quasi totalmente diverso da quello delle autonomie. Qualcosa vorrà pur dire se questa battaglia antica della Lega non è riuscita neppure quando aveva il vento in poppa. Oggi è felice di perdere bene. Vero che c’è una maggioranza ampia, ma è guidata da un partito che obbliga i suoi esponenti a usare la parola «nazione», e che ha nel programma il presidenzialismo centralista. Proposta che può piacere o no, ma è più facilmente comunicabile del federalismo, specie se questo deve rinunciare, per serietà, agli slogan antimeridionali.

E infatti uno degli interrogativi pratici più importanti riguarda proprio il gradimento di questa nuova devolution, dopo quella fallita. Veniamo da elezioni che hanno registrato il 60% di assenti alle urne, per tante ragioni ma anche per la scarsa popolarità dell’Ente Regione, che proprio non ha mai suscitato passioni. Insomma, vediamo non solo una strada in salita e comunque talmente lunga che finirà per sfibrare anche i suoi supporter, e magari anche il Paese, perché potrebbe bloccare il dibattito politico per mesi. Ne vale la pena?

Vero è che l’operazione è oggi affidata al più abile dei leghisti, quel ministro Calderoli abituato da decenni di permanenza romana a districarsi alla grande in quella palude. E infatti ha nascosto in un testo apparentemente innocuo la «compartecipazione» al gettito di alcune imposte e l’attribuzione solo al Governo, non al Parlamento, del calcolo dei LEP, ovvero i coefficienti di riequilibrio e distribuzione delle risorse. Ma una riforma importante avrebbe bisogno di un consenso largo e qui la preoccupazione riguarda il prezzo di un compromesso. Tutto fa pensare che se vedremo insieme Salvini ed Emiliano, Bossi e De Luca, sarà matematicamente certa una soluzione all’italiana: costi e complicazioni istituzionali in più. L’unico applauso rischia allora di essere quello surreale del Consiglio dei ministri che ha varato una bozza di buone intenzioni e potenziali paralisi. Ripetiamo: ne vale la pena?

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