Battiato, la speranza di un «essere speciale»

È stato un «essere speciale». Non ci sono parole migliori per definire Franco Battiato, se non quelle di una sua canzone. Ogni altra rischia di diventare prigioniera di cliché riduttivi quanto banali. Cantautore eclettico certo, poeta, artista a tutto tondo, ma anche filosofo, genio. Tutto ciò messo assieme e forse più. Di fatto è rileggendo in filigrana i testi delle sue canzoni e ballate che si svela il suo essere unico, originale, particolare. La musica ha avuto cura di lui, negli ultimi tempi era diventata balsamo e sollievo, ma non è bastata a guarirlo. La notizia della sua morte, avvenuta ieri nella sua casa di Milo, alle falde dell’Etna, ha suscitato una reazione bipartisan del mondo della politica, per una volta compatto. Chissà cosa avrebbe pensato Battiato, così lontano da politici e potenti. Si era fatto tentare da quel mondo, accettando la carica di assessore al Turismo della Regione Sicilia sotto la presidenza di Crocetta.

Una stagione durata, sì e no, 4 mesi, finita dopo un duro intervento al Parlamento europeo dove bacchettò la politica italiana con parole forti senza peli sulla lingua («Sarebbe meglio che aprissero un casino»). Una lettura artistica travisata, si disse. E allora, proprio nel giorno in cui sul ponte di Battiato purtroppo sventola bandiera bianca, non può che tornare alla mente uno dei suoi brani più noti, l’energico j’accuse «Povera Patria», dove emergeva «Questo Paese devastato dal dolore». E nell’anno di Dante - 7 secoli fa la morte – non strida allora l’accostamento con l’invettiva dell’Alighieri con l’incipit «Ahi serva Italia, di dolore ostello» (Purgatorio, Canto VI) dedicato ai politici. Parallelismi audaci, forse, ma in entrambi vibrano corde e sentimenti patriottici. «Povera Patria» uscì nelle radio nel novembre 1991, anno del pentapartito a guida andreottiana, brano destinato a diventare colonna sonora spartiacque fra la prima e la seconda Repubblica, preludio di un’imminente Tangentopoli. Battiato non ebbe timori a scrivere e pronunciare la parola Patria, che a maligni e speculatori avrebbe ricordato una terminologia di, nemmeno tanto velato, orgoglio fascista e comunque avrebbe rischiato di cadere in un’accezione retorica.

Le parole del brano avrebbero fatto il resto, sferzato i potenti con un lessico crudo («Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!», «gente infame, che non sa cos’è il pudore», «Nel fango affonda lo stivale dei maiali»), ma efficace e doloroso come colpi di frusta. Una critica feroce che a distanza di 30 anni non può che far riflettere. Un brano facile da ascoltare, difficile da dimenticare, diretto e senza ricami, con un ritornello sospeso e quasi enigmatico: «Non cambierà, forse cambierà». Fra tinte cupe, esce uno spiraglio di luce quando Battiato «prega»: «Si può sperare che il mondo torni a quote più normali», consapevole di non sapere cosa riserverà il destino a lui e alla Povera Patria.

Una speranza che negli ultimi tempi era diventata ottimismo: «L’Italia rinascerà, sapremo andare oltre la corruzione, gli scandali, la dittatura del denaro, l’egemonia delle cose materiali. Lo Spirito avrà la sua rivincita. Comincerà un’epoca in cui saranno più importanti lo spirito, la bellezza, la cultura». Battiato non era un politico, ma una personalità poliedrica, colta e raffinata, con una miriade sfaccettature, certezze e manie, con i suoi voli pindarici e le sue concezioni. Coltivava musica e spiritualità, misticismo sufi e buddismo tibetano. Gli piaceva la pittura. Rideva di Darwin e credeva negli angeli e nella reincarnazione, ma nella galassia dei suoi interessi c’era posto anche per i santi e cantò davanti a Giovanni Paolo II. Di Battiato si ricorderà l’uomo onesto e sincero. E sarà bene non lasciar cadere nell’oblìo la sua speranza. Che non può trasformarsi in utopia.

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