Boom Referendum
Assenze e rischi

Grazie alla possibilità della sottoscrizione telematica, prende corpo una stagione della democrazia che prevede, presumibilmente come non episodici, inserti di democrazia cosiddetta diretta, mediante i referendum previsti dalla Costituzione. Contestualmente, è ripartita, da destra e da sinistra, la critica a questo strumento, accompagnata dalla proposta di renderne più difficile l’attivazione (elevando ad esempio il numero di firme necessarie). Per la richiesta referendaria, i costituenti hanno scelto una cifra fissa (la sottoscrizione di 500.000 cittadini), non una percentuale, ritenendo questa cifra indicativa di un consenso sufficientemente ampio da meritare un seguito.

Ciò non toglie che il numero possa essere elevato con revisione costituzionale. Non ci pare invece condivisibile la critica mossa alla deresponsabilizzazione che la firma telematica produrrebbe rispetto a quella apposta ai banchetti o in Comune. Il processo alle intenzioni sulla serietà delle sottoscrizioni potrebbe farsi sempre ed è argomento che degrada e offende il cittadino.

Indubbiamente questa semplificazione procedurale rischia di accorciare anche i tempi del dibattito pubblico sui temi sollevati. Al contempo, può suonare poco credibile la rivendicazione della centralità del Parlamento, in un contesto in cui i partiti, cui è affidata la mediazione rappresentativa, sono assenti dal territorio, hanno reciso il legame con il tessuto sociale e non perdono occasione di ostentare la loro reciproca inconciliabilità. La mediazione è pubblicamente negata o, meglio – quasi fosse oscena – sembra che debba stare nascosta, benché avvenga comunque entro le sedi istituzionali. Com’è avvenuto, ad esempio, con l’approvazione della legge 219/2017 (sul consenso informato e sulle Dat) che, compiendo scelte coraggiose in ordine a nutrizione e idratazione artificiali, non ha ignorato la possibilità dell’eutanasia attiva: semplicemente non l’ha voluta introdurre. In questa situazione, la proposta referendaria gioca una carta attraente, guadagnando facilmente simpatia contro la reticenza e la lontananza della classe politica, quasi fosse una forza pura di opposizione popolare. E pazienza se spesso le proposte referendarie (si pensi a quelle sulla giustizia) provengono da forze ben rappresentate in Parlamento...

Il referendum conquista la scena anche in forza di una radicalizzazione: innalza vivacemente l’istanza che si ritiene trascurata dalla legge, ma ne espone per così dire solo il principio – talora lo slogan - senza potersi e volersi fare carico dei dettagli. Il referendum, per così dire, taglia, ma non cuce. E talora il taglio crea una ferita pericolosa, alla cui suturazione dovrebbe provvedere - rapidamente! - il Parlamento, la cui azione di ricucitura è assai più lenta rispetto alla volontà referendaria, a cui, al contempo, deve restare fedele. Del rischio di questa diversa velocità sembrano talora consapevoli gli stessi promotori referendari, come nel caso - che nasce da vicende personali tragiche - del referendum sull’omicidio del soggetto consenziente, i quali sembrano quasi preoccupati di circoscrivere l’effetto di un’eventuale abrogazione, riconducendolo sostanzialmente ai casi (una «circoscritta area») di cui s’era occupata - con l’affaire Cappato - la Corte costituzionale. Ma così non è: il taglio sarebbe ben più esteso, con effetto di legittimazione amplissima di forme e modi dell’omicidio del consenziente. Così com’è, sarebbe una ferita troppo larga non solo alla mediazione (parlamentare), ma alla Costituzione. Lo stesso vale per il quesito sulla responsabilità civile dei magistrati. Il rischio è, cioè, che le proposte referendarie diventino surrettiziamente strumento di legislazione positiva, non solo abrogativa, o manifesti politici, producendo consenso attorno a slogan (la giustizia giusta, ad esempio), lasciando in ombra la fatica della cucitura e della definizione accurata e delicata di casi e limiti.

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