Boris choc, profughi deportati in Ruanda

«Compassione infinita, accoglienza no», proclama Boris Johnson nell’annunciare l’ultimo provvedimento del suo governo: la deportazione in appositi centri di accoglienza di decine di migliaia di richiedenti asilo, esclusi i profughi ucraini, in Ruanda.

Dunque a coloro che attraverseranno la Manica toccherà in sorte di finire in un campo profughi africano a 7 mila chilometri di distanza, se arrivano da un «Paese sicuro», come la Francia o l’Italia. La decisione (o il pretesto) è stata presa anche in seguito alla tragedia dei 27 migranti annegati che si è consumata nella Manica prima di Natale 2021. Non a caso la Royal Navy prenderà il posto della polizia di frontiera nelle operazioni contro gli scafisti.

Gli sbarchi in territorio britannico si susseguono, i profughi sono oltre 28mila, numeri largamente inferiori ai dati di Italia e Francia, ma un record per il Regno Unito. «Spendiamo 5 milioni di sterline al giorno per i richiedenti asilo che soggiornano negli alberghi. Il popolo britannico ha votato più volte per riprendere il controllo dei nostri confini. Non di chiuderli: ma di riprendere il loro controllo. Non si può continuare a “saltare la fila”. E così daremo anche il colpo di grazia a scafisti e trafficanti di uomini, che hanno reso la Manica un cimitero».

Quello che colpisce però è la deportazione in Ruanda, in puro, feroce e anacronistico spirito coloniale come se il tempo si fosse fermato. Sono stati gli inglesi a inventare i campi di concentramento, la cultura del lager è nata in Sudafrica ai tempi del conflitto dell’impero britannico con i boeri per eliminare dal territorio e «immagazzinare» fasce di popolazioni ostili. Un sistema che sfortunatamente ha preso poi piede, nel «secolo dei lager» un po’ dappertutto, a cominciare dai lager nazisti.

Dunque abbiamo avuto un ennesimo saggio di quello che è la Brexit: la fine della libera circolazione non solo delle merci ma anche degli uomini e tutto ciò che ne consegue in peggio, il brutale trasferimento di uomini come se fossero cose in luoghi totalmente diversi dalla meta che si erano prefissi. Un salto indietro non di uno, ma di due secoli, l’epoca della schiavitù. Perché se è vero che il Paese africano, remunerato per l’accoglienza dei profughi con 140 milioni di euro, non è più quello del genocidio tra tutsi e huti, non si capisce che fine farà questa gente, probabilmente sarà destinata una vita di stenti dentro i campi profughi, veri e propri ghetti senza speranza anche se privi di filo spinato, non certo un’opportunità per rendersi padroni del proprio destino e aspirare a un minimo di benessere economico, come sperava questa povera gente approdando nell’Isola di Sua Maestà. Naturalmente a proposito del Ruanda Johnson ne decanta le doti di Paese in grande ascesa economica e uno «dei più sicuri al mondo».

E gli ucraini? Non è che la politica nei confronti dei rifugiati provenienti da quel Paese devastato dalla guerra sia molto diversa. A dispetto dei vari sbandieramenti Johnson preferisce inviare armi a Kiev, mentre accoglie pochi rifugiati provenienti dal Paese invaso dalla Russia, non più di 50 mila persone (in Polonia sono milioni). Per il Refugee Council si tratta di una «decisione crudele e malvagia» da parte di Johnson, mentre la Croce Rossa parla di «un costo finanziario e umano considerevole». Anche perché Johnson dimentica un concetto molto elementare: non c’è compassione senza accoglienza e non c’è accoglienza senza compassione. Le due cose si tengono insieme: non si possono tenere distinte come proclama il premier britannico con grande cinismo.

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