Chiudere per vivere
Il grido di Bergamo

Non restava che questo. Chiudere tutto. E a questo siamo arrivati. Ci ha portati lui, il maledetto coronavirus. E ci siamo arrivati un po’ anche da soli, rispettando sì, le regole. Ma non sempre, non tutti. Inutile negarlo: il 46% degli smartphone bergamaschi si è spostato, il 17 marzo. Troppi. Dunque, ora è tutto chiuso. Lo ha comunicato a tarda serata il premier Giuseppe Conte. Quel che non era ancora chiuso, ora lo è. Tutto quel che non è indispensabile per il nostro minimo vitale, alimentazione e cura della salute, di fatto abbassa la saracinesca, pare fino al 3 aprile secondo le agenzie di stampa. Ci si poteva arrivare prima, forse. E forse si doveva.

Ora, ci siamo, è davvero chiuso tutto. Dopo una manciata di decreti e una nidiata di ordinanze, regionali e statali, siamo all’ultima curva. L’Italia si riduce al suo minimo vitale, per provare a contenere dentro un recinto invisibile - milioni di quattro mura - il virus che sta uccidendo migliaia di persone.

A questo, siamo dovuti arrivare. La scelta avrà danni economici pesantissimi, ma riparabili. La perdita di vite, già numerosissime, è invece irreparabile. Bergamo è al centro di questa immane tragedia. E forse proprio da Bergamo è partita la spinta decisiva, con una lettera che ha unito tutta la politica provinciale, al di là e al di sopra di ogni colore politico. Rivolto al presidente della Regione Attilio Fontana e al presidente del Consiglio, più che un appello quel testo era un grido di dolore, una richiesta disperata d’aiuto. Una supplica. Chiudete, chiudete tutto. E non affidatevi più al buon senso dei cittadini, perché non basta.

C’era, in quelle righe, la presa d’atto che l’Italia è irrimediabilmente il paese del severamente vietato. Vietato, da solo, non basta. Per una parte di noi, il solo divieto equivale a vietato, ma solo un po’. Equivale a quella situazione in cui cediamo alla tentazione di prendere la norma e sfruttarne ogni piega, per renderla consona al nostro comodo, ovviamente e irrimediabilmente prioritario rispetto al comodo altrui. Ora che siamo alla serrata totale, speriamo che la nuova norma non abbia pieghe nelle quali creare eccezioni, non lasci margini di manovra per far rientrare nella categoria dell’essenziale anche ciò che non lo è.

Servono «regole perentorie», ha ringhiato l’altra sera il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Si riferiva al tema che per giorni ha surriscaldato i social: lo sport all’aperto. Perché non si capiva: si può, o non si può. Così l’altra sera è intervenuto il Governo, con un’ordinanza che ha precisato che non si può, ma anche sì, a patto che la corsetta si svolga non oltre la prossimità dell’abitazione. Ma non esiste codice, codicillo, circolare, verbale che codifichi la dimensione millimetrica della prossimità: è così che l’italiano finisce per costruirsi la sua. Per il corridore della domenica sarà un chilometro, per il maratoneta incallito magari sono cinque. La Legge non dovrebbe prevedere concetti soggettivi dei termini. E a questo non ha posto rimedio nemmeno l’ordinanza regionale di ieri. Che al concetto di «prossimità» ha sostituito quello dei «pressi». Non si può correre, «se non nei pressi delle proprie abitazioni». Non si può correre, ma si può. E’ vietato, ma non severamente.

Certo non sarebbe bastato il tassativo divieto delle corsette a portarci fuori da questa immane tragedia, a impedire che altri nonni vengano ancora strappati ai loro nipoti, altre madri e altri padri ai loro figli. Serviva altro, e là dove non poteva arrivare la Regione doveva arrivare il Governo. E a tarda sera, è arrivato. Ora però aspettiamo norme chiare, ferree, che non diano l’idea del semaforo giallo che dovresti fermarti, ma poi tutti passano. Norme che non lascino margine di manovra a chi ancora vorrebbe resistere, magari nel nome del fatturato.

A Wuhan sono a zero contagi, nel Lodigiano ci sono vicini. Non è finita davvero nemmeno per loro. Ma qui c’è una provincia che piange centinaia e centinaia di morti, ci sono famiglie che piangono e famiglie che non sanno se fra dieci minuti piangeranno. Ci sono le ambulanze in coda all’ospedale, ci sono quei camion dell’esercito carichi di bare, come in un film di guerra. Chiudete tutto, adesso. E tutti, riduciamoci al minimo vitale, come un letargo che comincia a primavera. Non c’è sacrificio che non sia irreparabile, tranne uno. Lo hanno già fatto in troppi.

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