Conte si allarga
Di Maio all’angolo

Dicono che non sia piaciuta ai capi grillini l’intervista con cui Giuseppe Conte ha detto che si vede nel futuro come un leader politico e non certo «come un Cincinnato». E si capisce, il perché di questo «disappunto» di Di Maio. Conte si sta mettendo al centro dell’alleanza tra Pd e M5S per candidarsi ad essere il futuro front-man dell’alleanza in funzione anti-Salvini. In questa posizione Di Maio finirebbe per scomparire risucchiato nel gorgo del disastro elettorale grillino prossimo venturo. A Giuseppe Conte si attaglia l’antico motto: «Beato chi ha un occhio nella terra dei ciechi».

Insomma, senza un’identità politica e senza un’idea stabile in testa, ma con una laurea e una cattedra, un perfetto nodo alla cravatta e un certo uso di mondo, il professore è stato un perfetto presidente del Consiglio sin dal primo momento che ha messo piede, da perfetto sconosciuto, nella stanza d’oro di Palazzo Chigi.

Anche quando chiedeva a Di Maio: «Questo lo posso leggere?», e quello gli rispondeva, padronale: «No, no», aveva già un certo stile, un aplomb, un portamento che lo faceva sembrare un vero presidente del Consiglio. Oggi mette a frutto due anni di esperienza e guarda in alto. In alto, fin dove? Qualcuno sussurra: fino al Quirinale, dove però dovrebbe sfidare qualche peso massimo superstite del passato come Prodi o il messo dell’iperuranio dei poteri forti Mario Draghi. Ma, a parte il Colle, quel che più sembra concreta è l’ambizione di diventare il volto credibile o almeno presentabile, di un nuovo centrosinistra che inglobi, sussuma, aspiri, ingoi ciò che resterà dei Cinque Stelle, o quantomeno quella parte che guarda a sinistra. E quando Zingaretti, scandalizzando non pochi dei suoi sodali, ha detto che Conte è «un autorevolissimo punto di riferimento della sinistra», intendeva lanciarlo in questo ruolo che consentirebbe al Pd di recuperare tanti voti persi negli ultimi anni.

Conte peraltro è l’uomo più flessibile del mondo. È l’unico ad aver presieduto senza soluzione di continuità temporale un governo di destra e uno di sinistra. Neanche Depretis, neanche Andreotti sono stati capaci di fare altrettanto. Lui si è piegato in un verso quando sedeva accanto a Salvini, e si piega nell’altro ora che ha Franceschini come vicino di poltrona. Si piega con grazia, e gli viene naturale sia l’apertura che la chiusura dei porti. Non che sia incapace di mostrare i canini, si intende. Quando cadde il suo primo governo, si conquistò in aula l’ammirazione dei democratici infilzando Salvini, lui novello Cicerone, esecrandolo come il nemico catilinario della Repubblica. Salvini se lo è legata al dito e non passa giorno che non lo attacchi. Ma così fa il gioco di Conte che come l’anti-Salvini si presenterà all’elettorato.

Si capisce dunque la stizza di Di Maio, alle prese con la rivolta nei gruppi parlamentari, con i senatori nel panico che scappano armi e bagagli verso la Lega, con le beghe sui rimborsi e sulle decime da versare a Casaleggio, con i capricci della Lezzi e il rancore di Nicola Morra ancora una volta lasciato fuori dal governo, lui che da professore di scuola già si vedeva alla scrivania di Francesco de Sanctis al posto di Fioramonti. E persino, Di Maio, deve vedersela con quelli che, sfacciati, gli chiedono di scegliere tra la guida del movimento in crisi e quella del ministero degli Esteri. Giggino medita vendetta tremenda vendetta verso quel professorino azzimato che si è montato la testa e prova a rubargli la scena con ottime possibilità di riuscita. «Io ti ho creato, e io ti distruggo», mormora tra sé e sé il deputato di Afragola.

© RIPRODUZIONE RISERVATA